Il teatro è forma espressiva artigianale, almeno finché la tecnologia non renderà plausibile un’autentica percezione spaziale a distanza (la realtà virtuale coi casconi di qualche anno fa era una mezza bufala, ma le cose si evolveranno). Caratteristica peculiare dell’arte scenica è l’interstizialità, il comporsi di eventi minuti, lungi dai grandi numeri, al punto che persino un esperto del settore (chi fa critica dovrebbe esserlo) può non aver mai veduti all’opera artisti “imperdibili” per importanza e centralità.
Al contempo, esistono filoni nel panorama professionistico (di questo ci occupiamo: render conto pure degli amatori sarebbe improponibile) interessanti e dall’arduo monitoraggio: il teatro scolastico è, senz’altro, territorio poco esplorato, basato su principi diversi rispetto a quello dei cartelloni serali, pur non disdegnando prossimità e intersezioni.
Complice un laboratorio svolto in un liceo, siamo a Lucca presso l’Auditorium del Suffragio per vedere il Miles gloriosus di Plauto, consolidando la disarmante certezza di come la città soffra un’imperdonabile carenza di spazi scenici medio-grandi (ormai necessari per una credibile programmazione contemporanea). La luce mattutina penetra dalle vetrate, palesando, in anticipo sulla recita, la scenografia: due strutture ai lati, unite da un alto praticabile centrale, con uno spazio a offrire la vista del fondale. Tale squarcio sarà efficace escamotage per far segretamente trascorrere i personaggi, come previsto dall’intreccio.
Commedia plautina tra le più antiche, il Miles narra d’un soldato fanfarone, d’una giovane coppia da ricongiungere e delle astuzie d’un servo che, tessendo due beffe, risolve la vicenda. Il tutto permeato da crasso umorismo, indulgendo su lazzi scollacciati e ammiccamenti. In tal senso, la strategia di Cristiano Roccamo è condivisibile: se s’ha da coglier lo spirito del testo, la stringente filologia (leggasi: cieca fedeltà letteraria) rischia d’esser strada poco adatta, là dove la riscrittura, pur plasmata su toni prevedibili da comicità cinepanettonica, rappresenta opzione plausibile.
Massimo Boncompagni è un glabro Pirgopolinice che non lesina ancheggiamenti e battutacce, benché la sua interpretazione ci paia occasione mancata: essendo la commistione dialettale tattica esplicita del lavoro (altra idea lecitissima), personale e personaggio si sarebbero, ben più della chiave toscaneggiante, meglio giovati d’una caratterizzazione romagnola o lombarda, rimandando a due noti capipopolo nostrani usi a vantarsi troppo e correr dietro a gonnelle. Meglio lo schiavo di Jacopo Costantini, deus ex machina, architetto e regista in campo della situazione: accelerazioni, battute calibrate, sfondamenti della quarta parete, in un bell’amalgama con l’amorosa di Sara Castiglia (autrice delle musiche, purtroppo non convincenti né aiutate dall’acustica), nonché le varie personificazioni di Fabio Facchini (pure en travesti) e Riccardo Bartoletti.
Un’operazione plautina deve senz’altro affondar mani e piedi nel vulgaris: non per questo ci sentiremmo di malgiudicare il lavoro di Roccamo. A lasciar perplessi, però, è l’evidente gioco al ribasso, facilotto sia nella recitazione sia nelle trovate, che rischia, per paura di suonar distanti a un pubblico non uso alle platee, di svilire il talento d’un cast assai più valido di quanto intravisto sul palco. Il risultato è trasmettere, qui il peccato maggiore anche in virtù delle moltissime repliche, un’idea completamente erronea di quel che la scena possa davvero offrire, contribuendo ad alimentare ulteriormente la condizione di residualità, non vorremmo dire irreversibile ma potrebbe essere così, del teatro stesso. I ragazzi non sapranno chi è Eduardo, ma non s’accontentano certo di Nonno Libero o Paolo Ruffini (quello di Livorno): capirlo, per poi agire in conseguenza, potrebbe essere vitale.