In questo periodo, i teatri sono alle prese con la famigerata “domanda ministeriale” in scadenza il 31 gennaio 2015. All’ordine del giorno delle principali istituzioni sceniche c’è la necessità di interpretare (con una discreta dose di ansia) gli elementi di una riforma che promette di mutare il quadro e la geopolitica dei teatri italiani.
In effetti, cercare di comprendere i nuovi criteri per l’erogazione e le modalità circa la liquidazione e l’anticipazione di contributi allo spettacolo dal vivo, in pratica la ripartizione del FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo), non è esercizio semplice.
L’articolo 2 del decreto («obiettivi strategici del sostegno allo spettacolo dal vivo») riassume l’intenzione che starebbe alla base della riforma: favorire la qualità dell’offerta in ottica multidisciplinare; puntare sull’interazione tra lo spettacolo dal vivo e la filiera culturale, turistica ed educativa; creare i presupposti di un riequilibrio tra domanda e offerta culturale; sostenere i processi di internalizzazione; valorizzare la capacità dei soggetti di reperire autonomamente ed incrementare risorse diverse rispetto ai contributi statali; sostenere la capacità di operare in rete.
Ma, in realtà, la vera necessità della riforma sarebbe quella di semplificare il frastagliato panorama teatrale italiano. Seppur in un quadro di mantenimento delle risorse rispetto all’anno precedente (si parla di circa 60 milioni di euro per la prosa), il tentativo è quello di alzare l’asticella e stabilire, con nuovi criteri di attribuzione (dimensione quantitativa, qualità e qualità indicizzata), una riorganizzazione complessiva del settore: una nuova ripartizione, che si basa su una valutazione comparativa dei progetti, secondo criteri di omogeneità dimensionali, suddividendo i soggetti che faranno richiesta di sovvenzione in sottoinsiemi. Con questi presupposti, saranno le realtà più piccole e meno organizzate ad avere maggiori difficoltà.
Prendiamo l’esempio dei tre teatri della costa toscana: Lucca, Livorno e Pisa, tutti parte dei 29 teatri di tradizione. Il loro obiettivo sarà quello di avvicinarsi il più possibile, sulla base dei parametri indicati, al punteggio massimo di 100. La soglia del contributo erogato ai primi soggetti della speciale classifica “teatri di tradizione” sarà il parametro di base da cui si partirà per distribuire il contributo a tutti gli altri, con una sorta di clausola di salvagurdia: il contributo del 2015 non potrà essere inferiore al 70% dell’anno precedente.
L’altra grande novità della riforma è rappresentata dalla triennalità, cioè la capacità di sviluppare un progetto e una programmazione dal 2015 al 2017. I teatri di tradizione avranno quindi la necessità stabilire dei precisi accordi coproduttivi per i prossimi anni, con poche possibilità di modifica. In pratica: ciò che si decide di programmare nel 2016 e nel 2017 dovrà poi essere effettivamente mantenuto. Su questi progetti triennali si verificherà la credibilità dei teatri e si deciderà il contributo per gli anni successivi (senza, peraltro, la salvaguardia del 70%).
Sulle alleanze e gli accordi progettuali si gioca gran parte della partita innescata dalla riforma. Guardando sempre in Toscana, è notizia di poche settimane fa l’unione tra il Teatro della Pergola di Firenze e il Teatro Era di Pontedera che concorreranno insieme alla domanda ministeriale come Teatro Nazionale (con la riforma potrà esserci un solo teatro nazionale per regione). Ecco quindi che il Metastasio di Prato (capofila regionale dal 1998 come Teatro Stabile) viene messo fuori dai giochi e potrà concorrere come TRIC (Teatro di Rilevante Interesse Culturale) una vera e propria retrocessione rispetto allo status precedente.
Piaccia o no, la riforma sta modificando la geografia teatrale a cui eravamo abituati. Sarà interessante verificare se le alleanze che si formeranno saranno dettate da veri intenti progettuali o dall’interesse di salvaguardare la propria rendita di posizione in un momento in cui la scarsità di risorse mette a rischio l’esistenza di molte realtà.