È un dilemma consueto, per chi come noi si occupa di scena con sparute ambizioni di completezza, quello circa lo statuto spettacolare delle performance musicali in teatro: cosa sono? Concerti e basta? Recital? O, in modo più stringente, rielaborazioni di teatro canzone, genere inventato, nella sua forma italiana, dalla coppia Gaber-Luporini? La risposta è nel vento: se è vero che le esibizioni canore sono anche spettacolo, è altrettanto innegabile che elementi teatrali possano confluire (e non) nelle strategie d’un artista musicale.
In tal senso, Bobo Rondelli incarna perfettamente il dubbio, diremmo amletico, di cui sopra: animale da palco tra i più dotati in circolazione, straordinario cantante per tecnica ed espressività, un’irrefrenabile indole a dominar la scena. Chiunque l’abbia visto all’opera è testimone della sua inusitata potenza, quel quid che s’imprime nella memoria di chi nota un artista.
Superati da tempo i cinquanta, eterno predestinato, ha date prove di sé al cinema (con Roberta Torre, ma non solo), in teatro e, soprattutto, con la musica, suo principale campo d’azione. Performer poliedrico: imitatore provetto (Tognazzi e Mastroianni su tutti), genialmente “sconsiderato” nel suo andar sempre e comunque “sopra le righe”, pure troppo, sino a giocarsi più e più volte l’occasione “buona” della carriera. Il suo pubblico, fedelissimo, affezionato, lo ama anche per questo: un’integrità limpida, da malidetto (alla livornese) più che da maudit, come quando, nel 2013, intitola un disco e la conseguente tournée A Famous Local Singer, celiando in prima persona sull’essere rimasto sempre a un punto dai campioni. Che, peraltro, conosce a mena dito: chiacchierare con lui di Johnny Cash, Leonard Cohen, Lou Reed, è un piacere, così come parlare di Luigi Tenco e Piero Ciampi, suoi amori italiani.
Proprio Ve lo faccio vedere io, parafrasando una celebre canzone parlata del fu Piero l’Italiano, s’intitola lo spettacolo che porta da un anno nei teatri italiani, traduzione scenica del disco Bobo Rondelli canta Piero Ciampi: lo iato tra le due titolazioni, oltre che la conoscenza diretta delle esibizioni bobesche, conferma l’idea che, pur in forma sfumata, si possa parlare di qualcosa certamente imparentato col teatro. Scortato da Fabio Marchiori (pianoforte) e Filippo Ceccarini (tromba), Bobo si presenta in una scena dimessa; quando attacca Fino all’ultimo minuto, il respiro del Teatro dei Rassicurati sembra sospendersi: carezza le note, gioca coi soffiati, infine, sull’ultima strofa, scarta il microfono e riempie la sala del suo timbro rotondo, ricco di armonici. Mutata, negli anni, la modulazione vocale, adesso focalizzata su sfumature delicate, lontana dall’esuberanza degli esordi.
Non mancano gli a parte, grevi, spiazzanti, labronicissimi, sempre sul filo del paradosso autobiografico: croce e delizia di Bobo è (sempre stata) l’urgenza di far ridere. Gli vien pure bene, talvolta sacrificando parte della forza complessiva. Remoti ormai i folli numeri d’un tempo (“la donna più pelosa del mondo”, “l’uomo che suona la chitarra con la dentiera”, roba forte): ritroviamo un artista non meno graffiante, ma senz’altro più mansueto; non è un male. Maggiormente a suo agio con le proprie canzoni (Madame Sitrì e La marmellata su tutte), sembra patire l’impronta ciampiana anche nei capitoli in cui potrebbe godersi una plausibilissima libertà, persino in Adius (il celebre recitativo che chiude a suon di vaffanculo), “logico” brano d’epilogo.
Si resta comunque convinti, come il suo pubblico accorso a ritrovarlo. È teatro? Forse no, ma anche sì.