Il processo creativo del duo Deflorian/Tagliarini, alla settima drammaturgia e regia di coppia, si è sedimentato in una scrittura propriamente definita da Graziano Graziani «post-drammatica». Dietro la leggerezza e l’ironia, la delicatezza e il sorriso sornione di Daria Deflorian si nasconde, o si svela (dipende dai punti di vista e dai gusti) un progetto molto ambizioso che vira, a mio avviso, verso la ricerca di un nuovo senso del tragico, decisamente contemporaneo. Un «io obeso», come lo definisce la stessa Daria in scena, si quadruplica in un vero e proprio quadrilatero di personaggi/non personaggi che galleggiano in una terra di confine fra la biografia d’attore e la finzione, scomponendosi e ricomponendosi nello spazio vuoto in figure simili a “costellazioni familiari”, con appena un grande fondale nero che può essere sia cornice che gabbia. Queste figure, nell’aggregarsi e disgregarsi, assomigliano a un fluorescente cubo di Rubik che si forma e sforma in un gioco complice con il pubblico, al quale, a ogni “smontaggio”, viene chiesto di chiudere gli occhi, d’immaginare… D’immedesimarsi? In un’altra storia? In se stessi? D’essere altrove? Se non c’è un’unica risposta coerente da dare, ci sono molte suggestioni e altrettanti input.
Non c’è una vera e propria trama nel susseguirsi dei fatti, ma lo spettacolo, nel suo insieme, prende forma come una narrazione epica di quattro aedi di una sgangherata e mesta contemporaneità. Nel variopinto e articolato incastro Deflorian/Tagliarini inseriscono Annie Ernaux, Jack London, Dostoevskij, Camus, intrecciandoli abilmente con canzoni d’autore italiane da Lucio Battisti a Lucio Dalla sino a Giovanni Truppi, interpretate con rara grazia da Monica Demuru: i brani musicali, nell’economia dello spettacolo, svolgono la funzione dell’aria nell’opera lirica, con la quale viene consegnata allo spettatore la chiave dell’intimo del personaggio e/o dello stesso artista-drammaturgo.
I frammenti dei vaniloqui, delle visioni, dei sogni di questi quattro eroi, o anti-eroi che siano, dei nostri giorni, compongono la drammaturgia di Il cielo non è un fondale e sono un interessante esempio di un tentativo di narrativa post-drammatica. Volutamente scomposti in un discorso paratattico, sono frutto della carenza affettiva dell’essere umano che annaspa nella realtà metropolitana della contemporaneità. La recitazione degli attori – vade retro “il declamatorio”- è caratterizzata dalla forte personalità della Deflorian, una cifra unica, con lo stesso tono colloquiale e ordinario, quasi sommesso, di una confessione telefonica fra buoni amici, diretta, sincera, accorata ma allo stesso tempo leggermente distaccata, ammantata di quella leggerezza e ironia di chi non vuol far pesare agli altri le proprie disgrazie. Dulcis in fundo, l’elogio al termosifone, che compare in scena come vero e proprio totem, palliativo di quel calore umano che molte, troppe volte, nella città vuota dell’oggi, manca.