Sfidano il freddo pungente le imparruccate maschere che guadagnano la platea della Fenice: il Carnevale ha inizio, la Colombina s’è librata su una Piazza San Marco invasa dal sole e un vento impertinente s’insinua tra calli e canali, schiaffeggiando turisti e curiosi persi tra gondole e bacari. Si dice che il cartellone del più bel teatro del mondo viaggi a doppio binario: in abbonamento, spettacoli per il pubblico “autentico”, appassionato ed esperto; nelle altre date, allestimenti di repertorio, destinati ai sempre più numerosi e poliglotti turisti cui s’offre un cicchetto di splendore serenissimo. Invero, nella sala dominata dall’oro antico di fioche luci sapienti, risuonano veneto e venesiàn, per una Bohème adriatica e lagunare.
Il blu domina la scena d’apertura firmata da Edoardo Sanchi: i tetti parigini han tratti fumettistici, e la memoria ripesca certi scorci da Aristogatti disneyani. La chiave filmica è ribadita da una scenografia fusa con le proiezioni a “inquadrare” e dipingere gli spazi da posizione frontale, movimentandoli. Incantevole la soffitta dei quattro spiantati stile Amici miei (Puccini aveva davvero vissuto da bohémien, assieme all’amico Mascagni), resa da un ampio praticabile rialzato.
Stefano Ranzani ha mano gentile e tenace: lo ricordiamo in due felici e distinti episodi fiorentini (Lucia di Lammermoor e Rigoletto, anno 2009). Qui, pennella di brio uno tra i più entusiasmanti incipit della storia operistica. A supportarlo, la vivacità d’un quartetto virile ben assortito: Matteo Lippi è un Rodolfo ardente di delicata passione, la cui voce carezzevole indugia su colorazioni suadenti. Il Marcello di Mattia Olivieri ci pare, insidiato dall’ottimo Colline di Luca Dall’Amico, il carattere meglio valorizzato nella vocalità esuberante e centrata, a scolpire note senza sottrarre quel sentimento che è qualità precipua della trevigiana Francesca Dotto, dolce Mimì destinata alla tisi. Notevoli lo Schaunard di William Corrò, ma, soprattutto, la vibrantissima Laura Giordano, impertinente e aguzza Musetta, brava ad appaiar vocalizzi e movenze nella mirabile fusione di codici espressivi.
Più che il singolo elemento è il quadro d’insieme a trionfare, in un felicissimo e coerente costrutto: merito va alla regia di Francesco Micheli che si mette efficacemente al servizio d’un equilibrio encomiabile. Il secondo atto entusiasma per i movimenti simultanei di coro e corpo di ballo in azione su piani sovrapposti: quello che per Puccini rappresenta il quadro più spettacolare sembra esplodere di vita, per poi cedere, nel terzo atto, al dolente confronto tra innamorati. Pregevole il contrasto tra i toni algidi della coppia Rodolfo-Mimì e quelli accesi di Marcello-Musetta, col movimento dell’imponente locanda che, roteando su sé stessa, alterna un desolato chiarore invernale al caldissimo vermiglio.
Si chiude tra le lacrime: quelle per il commiato al violoncello di Bruno Frizzarin, quarant’anni d’onoratissimo servizio in buca e non solo (Venezia tutta gli tributa una giusta ovazione), e quelle attese, preannunciate, puntuali, per un’opera in cui a trionfare è la forza musicale sulla trama (in sé esilina anzichennò), sull’immagine finale dominata da una violenta luce naturale (scelta eccepibile) e, ancora, sulle singole voci, non sempre a proprio agio quanto a volume nelle arie soliste. Quelle che, “azzeccatissime”, contribuirono non poco, dopo il bel colpo di Manon, alla consacrazione del maestro lucchese, in barba a Leoncavallo che aveva scelto lo stesso soggetto di Murger e al fiasco per la prima, al Regio di Torino, nel 1896: è qui evidente il caparbio disegno pucciniano di propugnare un teatro musicale compiuto in ogni elemento, ed è da riconoscere a Micheli e Ranzani la bravura di coglier benissimo tale caratteristica, senza cedimenti a prevedibili “strizzate d’occhio” nei confronti del pubblico. Applausi convinti. Fuori, nella sera e per dieci giorni buoni, è ancora Carnevale.