La storia del rock, titolo autoesplicativo per un concerto-spettacolo che vuole guidare dei ragazzi tra le varie incarnazioni di un genere musicale tanto diffuso quanto ricco di spunti. Non solo perché il rock’n’roll nasce da una commistione di generi africani ed europei, ma anche perché la sua storia si intreccia con importanti cambiamenti sociali (l’emergere dei giovani come categoria a sé), commerciali (la nascita delle grosse etichette discografiche) e nel rapporto tra musica e ascoltatore: si passa dalla radio nel soggiorno di casa, condiviso con tutta la famiglia, all’ascolto di LP ed emittenti pirata in una dimensione più intima, o comunque vissuta all’interno di un forte senso comunitario.
Lo spettacolo di Flexus investe tutti questi aspetti, pur semplificati per un target giovanile, quello che ormai vive l’esperienza della musica liquida, e li mette in scena in una galleria di canzoni intervallate da spiegazioni, racconti e contestualizzazioni. Gran parte della musica è suonata dal vivo da Gianluca Magnani (voce, chitarre elettriche, chitarre acustiche, armonica), Daniele Brignone (basso elettrico, basso primitivo, cori) ed Enrico Sartori (batteria, washboard, cori), un trio non particolarmente virtuosistico, ma piuttosto eclettico nell’adattarsi a sonorità diverse. Lo stile è quello dell’imitazione di un concerto vero, con luci ritmiche e pubblico che batte le mani a tempo, ma c’è spazio anche per l’ascolto vero, quello attraverso un grammofono di un’incisione del 1925 di Bessie Smith o di canzoni direttamente da vinile. Si conoscono dal vivo alcuni strumenti che hanno contrassegnato la storia che stiamo ripercorrendo, dal sostituto artigianale del contrabbasso (una scatola, una scopa e una corda) alla Fender Stratocaster usata da Jimi Hendrix, passando per il basso-violino (modello Höfner, tedesco, non a caso acquistato ad Amburgo) di Paul McCartney (Beatles).
Tutto rischia, però, di ridursi a poco più di una sfilza di canzoni famose, proposte con l’ingenua convinzione che l’esecuzione sia un fenomeno mimetico e trasparente rispetto all’oggetto da portare in scena. Ascolti originali (talvolta accompagnati dal testo in traduzione) ed esecuzioni live sono trattate allo stesso modo, come se quelle canzoni si presentassero ugualmente nella loro essenza.
Racconto e performance musicale si alternano, a volte sovrapponendosi: tutti i tre componenti della band di Carpi si cimentano nella spiegazione. Disinvolto e radiofonico il front-man Gianluca Magnani, un poco più legnosi i due ritmici, Daniele Brignone (basso) e Enrico Sartori (batteria e percussioni): tutto scivola, comunque, nell’impressione di una lezione troppo studiata a memoria, in una naturalità artificiosa che si allontana quanto più possibile dalla spontaneità, nonostante le buone intenzioni. Potrebbe aiutare molto una drammaturgia più raffinata, con il coraggio di rinunciare ad alcuni passaggi descritti in modo troppo semplicistico (target e tempo a disposizione non permetterebbero altrimenti) e sfrondare il testo dalle frasi fatte che lo appesantiscono.
In poco meno di un’ora e mezzo abbiamo messo al loro posto alcuni nomi, canzoni e fenomeni dal blues ai Pink Floyd: il sequel, non in programma al Lucca Teatro Festival dove abbiamo assistito a questo spettacolo, si occupa dei decenni dai Settanta in poi. Nonostante alcune perplessità di fondo, la curiosità c’è.