Il pigolante brulichio serale sferza il pungere del freddo d’un gennaio autentico. Ed è bello osservare Carrara agghindarsi di tutto punto (niente sciccherie eccessive) per salutar la riapertura d’uno dei suoi edifici più belli e significativi, quel Teatro Animosi che ha dovuto aspettare quasi sette anni per venir restaurato e restituito alla destinazione principale.
Storia peculiare, quella dello spazio For d’porta, all’imbocco della Carriona, nella parte della città che dà verso quelle cave che sono serbatoio, storico e sacro, di lavoro, speranze e dolori, per un centro che tutto o quasi deve all’oro bianco in carbonato di calcio. Negli anni Sessanta, oltre al consueto cinema ammazza-scena, persino il pugilato approda sulle tavole di questo spazio ottocentesco. E ci pare aver senso che l’ennesima riapertura venga battezzata da uno spettacolo unico nel suo genere, Solo di Arturo Brachetti, best of per quello che è forse il performer italiano più noto al mondo (se la batte con Roberto Bolle).
Platea e palchetti son gremiti da un pubblico d’ogni età, accorso al solo scopo di farsi stupire: da parte sua, l’artista torinese non si risparmia e, sin dalla letterale apparizione che inaugura lo show, l’esibizione si sostanzia in un’inesauribile sequenza di mirabilie comprendenti trasformismo, recitazione, danza, musica e arti varie.
Il discorso scenico è cucito grazie a un esile fil rouge: sul palco, ricostruita la casa dei ricordi, il protagonista “si tuffa” nel passato, classica soluzione a “cornice” per consentirgli lo sfoggio d’una bravura sbalorditiva non solo e non soltanto per le innegabili capacità, ma, soprattutto, per il camaleontico eclettismo. È come se non vi fosse niente di quel che si può compiere in scena che Brachetti non sappia riprodurre e, se possibile, far meglio di chi già vi eccelle. Pensiamo alle ombre cinesi, o al numero finale, quando disegna con la sabbia, mentre una telecamera riprende tutto in diretta, proiettando sul fondale lo strabiliante risultato.
Silhouette invidiabile, sorriso impresso su un volto che ha dichiarato, uscendone vittorioso, guerra al tempo (l’anagrafe lo dà quasi sessantenne, l’occhio vede come minimo vent’anni meno), Brachetti incanta e sbalordisce: il corpo flessuoso, pronto a plasmarsi su nuove forme e movenze, un po’ Paolo Poli (ne riprende la vocazione muliebre, non l’impertinenza), un po’ Carmen Miranda, prestidigitatore, illusionista, strappa sorrisi, applausi, esclamazioni.
“Che bravo… che bravo…”, ci ripetiamo.
E, man mano che ribadiamo il concetto, ecco insinuarsi l’idea di dove possa essere l’anello che non tiene d’una siffatta e mirabile struttura: recarsi a teatro per ammirar la bravura d’un portento è pratica estremamente ottocentesca, là dove il concetto d’arte si riconduce(va) alla corretta esecuzione, alla bravura. Il teatro era quello del grande attore, della grande voce, non quello specchio deformato/deformante con cui confrontarsi per una produzione di senso inattesa, spiazzante, che “ci porti” (o almeno tenti di farlo) dove non siamo ancora stati. E se va riconosciuto a Brachetti il fatto d’ordire comunque una tela a con-tenere tutti i propri gioielli (al contrario dei colleghi trasformisti e simili), è altrettanto vero che il costrutto complessivo manca d’una necessità che esuli dal suscitare una pur meritatissima ammirazione. Così è e dev’essere, nel bene e nel male.
Ed è questo, dunque, a spiegare il tarlo che ci assilla, mentre applaudiamo all’unisono con un pubblico giunto a celebrare una giustissima serata di festa.
[Peccato che, nel frattempo, gli Animosi sia nuovamente chiuso: dite che, in Italia, non c’è da stupirsi? Forse avete ragione, ma la rassegnazione non ci appartiene proprio].