Una donna piantata per terra, letteralmente, ad altezza vita. Per la vita. Da questo dettaglio, che tale non è, si deve partire, se si vuol render ragione di quella sciente aporia che è Giorni felici, episodio apicale d’una drammaturgia beckettiana spinta ben oltre la rappresentazione deformata, orrorifica dell’esistenza già fornita dai precedenti Aspettando Godot, Finale di partita e L’ultimo nastro di Krapp. A quasi dieci anni dall’attesa inane che inaugurò il Teatro dell’Assurdo, lo scrittore irlandese (di cui spesso s’ignorano poesia e narrativa, con almeno tre romanzi tra i capolavori del Novecento) alza ulteriormente l’asticella della sfida: al mondo, al teatro, allo spettatore, all’esistenza stessa.
Che felicità, svegliarsi per un ripetuto rintocco di sveglia, immobilizzati da e dentro un cumulo di detriti pronto a ingoiarci: eppure si ciarla, del più e del meno, della vita, delle cose che la compongono e che, per inconfessabile e patetica convenzione, vengono investite d’una qualche importanza. Nei dintorni, un marito ridotto a larva striscia qua e là, si masturba, farfuglia, rendendo ancor più parossistica, ammesso che sia possibile, una situazione tragica perché ridicola, ridicola perché patetica, patetica perché vera.
Nicoletta Braschi è attrice di controversa fama: non per effettivi e comprovati (de)meriti, ma per una volgar vulgata tutta italica che pretende la donna a rimorchio dell’uomo, specie se famoso, di successo. Più volte angelicata nelle pellicole del marito Benigni, da queste ha tratta fama, cedendo però sul piano dell’apprezzamento (le maggiori soddisfazioni sono giunte per Mi piace lavorare di Francesca Comencini), nonostante sian poche le persone che possano parlar con vera scienza di recitazione. La studiata fissità della cesenate non è, invero, mancanza di destrezza, ma chiave d’un modo definito e non mimetico di rapportarsi al personaggio, qualcosa che, a nostro avviso, farebbe di lei interprete ben più versata al teatro (arte metaforica per elezione) che al cinema, più abitualmente intriso di verosimiglianza. La apprezzammo difatti in Tradimenti, qualche anno fa, e abbiamo sempre pensato che la sconsolante felicità di Winnie, ruolo in sé difficilissimo, sarebbe potuta essere sfida interessante per le sue corde.
Eppure, il dispositivo scenico costruitole attorno da Andrea Renzi (nei panni del consorte Willie, regista e compagno anche del citato allestimento pinteriano) col contributo di Lino Fiorito sembra una macchina che, all’innesto della marcia, salta in folle, va fuori giri.
Il testo, crudelmente bellissimo, è tra i più complessi, a nostro avviso, del repertorio: pretende ritmo e cinismo, un articolato dosaggio di forza espressiva, pena l’inefficacia. Tutto questo, sulle spalle dell’interprete femminile. Bionda e irreale, la Winnie braschiana s’incaglia trascorsi pochi minuti d’un allestimento scolastico nelle soluzioni (ossia né esatto né errato), ristagnando nel dettato beckettiano come in un pelago limaccioso da cui a stento si riprende dopo l’intervallo, quando la giornata perfetta della coppia volge al termine.
Non abbastanza, purtroppo: più complessa la prova e meglio ha da essere il risultato. Ricordiamo la non lontana versione di Bob Wilson con Adriana Asti, e ci sfiorano dubbi addirittura sul senso d’includere un allestimento tanto peculiare, e dall’esito francamente controverso, in una rassegna come il Lucca Teatro Festival: si tratta, peraltro, di messinscena rodata, senza neppure l’attenuante del debutto.
Non cede alla malia della fama neppure la sala del Giglio, tiepida, per uno spettacolo da cui sarebbe stato naturale attendersi di più.