Il sipario si apre su un salotto circondato da un’immensa libreria: un misto tra la biblioteca della Bella e la Bestia e l’ultima proposta di “Architectural Digest”. La scenografia risulta prospettica: al centro, una porta da cui si diramano gli innumerevoli scaffali ricolmi di libri, davanti a essa, un divano bianco ai cui lati, poste simmetricamente, due scrivanie. Incastonate nella libreria, ambo i lati, due grandi finestre su cui si proiettano, oltre che un panorama da screen saver, video, fotografie e lettere, come vere e proprie finestre di personal computer. La scena, allestita da Maurizio Balò, è tanto bella quanto poco utilizzata: la porta verrà aperta una o due volte e i libri resteranno incollati agli scaffali. Ciao è quello che potremmo definire un documentario teatrale sulla vita e dei successi di Vittorio Veltroni, palesati al pubblico tramite un peculiare dialogo tra il figlio, ormai sessantenne, e il padre, a trentotto anni dalla morte.
Walter sta scrivendo un romanzo sul genitore e, talmente immerso nel suo lavoro, vede l’avvento di questi, con il quale inizia un viaggio a ritroso nei ricordi, nei successi che vanno dalla direzione della radio, alla scelta del Guglielmo Tell per la sigla del telegiornale, dalle telecronache ciclistiche su Bartali e Coppi, all’amicizia con Sordi.
Il testo drammaturgico, firmato appunto da Walter Veltroni, attinge a piene mani all’omonimo romanzo, e ne risente la provenienza: ritroviamo scene ridondanti e didascaliche, troppo descrittive per una performance agita.
In scena, Massimo Ghini è molto naturale nel personaggio di Walter, nonostante il ruolo gli imponga la ricerca dell’approvazione da parte di un figlio mescolato a una divulgazione nozionistica dei successi del padre alla stregua di una sorta di Alberto Angela.
L’interpretazione di Francesco Bonomo è fredda, distaccata da quello che dovrebbe essere il ruolo di un babbo secondo la proiezione mentale di un figlio che ne ha sentito la mancanza (n.d.r Vittorio Veltroni è morto quando il figlio aveva un anno): una figura allegra, spensierata, cosciente delle sue fortune e innovazioni.
Maccarinelli mette in campo una regia fondata su due aree fisiche corrispondenti ad altrettante proiezioni psicologiche, delimitate dalle due scrivanie: quella di Walter, a sinistra, e quella di Vittorio, sul lato opposto. Ognuno ruota intorno alla propria sedia, rievocando aneddoti sulla storia della radio e della televisione italiana; sino a giungere ai pochi incontri “paterni” al centro della scena, sul divano o davanti a esso.
Ed è normale che, all’uscita del teatro, le persone che hanno potuto vivere direttamente gli esordi della televisione restino affascinate da un allestimento come questo: cullati nel ricordo dai video in bianco e nero appena riproposti, canticchiano Vola colomba della Pizzi poc’anzi riascoltata. Lo spettacolo tenta un paragone tra l’attualità e il passato, sottintendendo (nemmeno celatamente) la classica frase: una volta eravamo felici con poco, adesso abbiamo tanto ma non lo siamo più. Ci auguriamo che questo genere di messe in scena pongano meno nostalgici amarcord e maggiori interrogazioni sul futuro, sul “come” da uno ieri difficile, o da un oggi non meno complicato, si possa raggiungere un buon domani.