C’è qualcosa d’intrigante e al contempo irrisolto nella lettura che Roberto Valerio e Umberto Orsini propongono di Il giuoco delle parti, traslazione pirandelliana della novella Quando si è capito il giuoco. L’impressione è, anzi, d’uno scavo: dalla superficie del dramma verso il racconto, più verace e cruento rispetto alla pièce che l’autore girgentino modella nel 1918 sul suo primattore Ruggero Ruggeri.
Per Orsini e Valerio si tratta pure d’un ritorno sul luogo del delitto: da un lato, l’allestimento è dedicato a Rossella Falk, amica e collega dell’attore (dal 1982 al ’97 codirigono, assieme a Giuseppe Battista, il romano Teatro Eliseo ora in disgrazia) e protagonista nel ’65 di un’indimenticabile messinscena con la Compagnia dei Giovani (gruppo cui partecipa anche Orsini per un periodo); dall’altro perché, nel ‘96, una bella versione diretta da Lavia vede Orsini protagonista con Valerio al debutto d’attore.
Veniamo al presente: il dramma si dipana all’interno d’un allucinato spazio mentale, proiezione della memoria di un Leone Gala (Memmo Viola nella novella) condannato alla reminiscenza. La voce fuori campo di Orsini investe l’intera visione realizzata da Maurizio Balò, un articolato e ingombrante sistema di pareti scorrevoli dai colori cangianti, in paradossale simbiosi con lo stato del protagonista. Scorrendo i crediti di locandina, alla voce adattamento troviamo non solo regista e attore, ma anche lo scenografo, cui si riconosce, giustamente, significativa autoralità rispetto allo spettacolo.
L’intero spartito orchestrale della messinscena è comunque calibrato sul primo violino: tutto si snoda attraverso le immagini che, dalla mente di Gala, s’incarnano in voci e corpi comprimari, in quella storia di corna sapute e accettate che è il dettato pirandelliano. Il loico protagonista ha gioco franco nell’incastrar man mano la moglie Silla e il di lei amante Guido: l’una, resa da Alvia Reale con pennellate di sostenuta svagatezza, l’altro, un Totò Onnis (sostituto di Michele Di Mauro rispetto alla stagione passata) squadrato, quasi caustico.
Fu vera gloria, però, quella in cui sembra crogiolarsi l’arguto cinismo di Gala? Lecito dubitarne: nell’ossessivo presente da istituto psichiatrico, il ricordo coatto incornicia la storia d’un uomo fuggito dalla realtà (del matrimonio, prima, del duello, poi) a trovar rifugio nel ventre comodo della cultura, preferendo, al confronto diretto con la vita, la dimensione forse meno problematica della consultazione libresca. Misantropia come rifiuto, ma pure fragilità: la stessa che affligge la coazione a ricordare che è la condanna da incubo futuristico di Gala/Orsini.
Il ritmo dell’allestimento è cadenzato, di gusto cinematografico, benché il meccanismo paia incagliarsi in dilatazioni che, forse, tradiscono l’orditura intenzionale del regista. Di Valerio, riconosciamo la bella mano nel gestire un discorso articolato, evitando vacui intellettualismi senza abdicare all’invenzione, quel sale irrinunciabile per spettacoli che vogliano andare oltre a una caprina (e inutile) esecuzione testuale. Rispetto ai precedenti (l’apprezzabile Un marito ideale, il bellissimo Vantone, l’intrigante Impresario delle Smirne), questo Giuoco sconta forse qualcosa, un pegno pagato, ipotizziamo, al calibro del primattore. Nondimeno, si tratta sempre di teatro “per” lo spettatore, senza volerlo né trattar da ottentotto o catechizzare, il che è davvero encomiabile.