Il Cimitero militare germanico al Passo della Futa è, già di per sé, un maestoso teatro naturale che domina l’Appenino sul confine incerto tra Toscana ed Emilia. Ogni estate, la compagnia Archivio Zeta abita l’impressionante monumento en plein air, andando in scena tra i sobri sepolcri e la massiccia struttura petrosa su cui svetta aguzza una torre. Molti, oramai, gli spettatori, per un appuntamento felicemente abituale. Quassù, tanto è il vento che sbuffa, quanto il fiato sottratto da un crepuscolo sublime, che dipinge di colori caldi le visioni allestite da Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti. Teatranti cum grano salis, i due, visti qui all’opera con un Macbeth esistenzialista, l’anno scorso, e, a Prato, in primavera, con un ficcante lavoro a tema economico.
Il loro teatro è come un Giano, bifronte e pensoso: un piede, anzi, uno sguardo fitto nel Classico, radice e del primo teatro e del nostro più potente orizzonte mitologico; l’altro rivolto all’oggi, la scrittura di scena come opzione prediletta. Su questa linea troviamo Il minotauro, solo in apparenza sbilanciato verso il primo versante: il mito del mostro partorito dall’empia Pasifae è, infatti, filtrato dalla lente di Julio Cortázar, argentino d’Europa, penne tra le più fini del Novecento. Confrontarsi coi classici è esercizio comune ai grandi autori coevi (l’Antigone di Anouilh è del 1941, quella brechtiana del ’48), sfruttando l’enigmatica potenza del mito per rifrazioni spiazzanti eppur gravide di senso.
Già dal titolo, I re (Los reyes), Cortázar concentra il fuoco del testo (del ’49) non sull’inverecondo ibrido, ma sui sovrani contrapposti, Minosse e Teseo: è il potere con le sue mistificazioni a calamitare lo sguardo dell’autore, affascinato più dalle prossimità tra i due regnanti, che dalle loro differenze o dalla dicotomia tra vecchio e nuovo ordine.
Ciro Masella è un Minosse incattivito e indomito: lingua tornita, il suo giocar con le parole è immaginifico, stigma di soggiogante forza virile e, appunto, potere. Gli si contrappone, prima, l’Arianna dolente ma non succuba di Enrica Sangiovanni, staticamente poderosa (infortunatasi nel corso delle prove, la forzata immobilità risulta comunque efficacissima); nei quadri successivi, toccherà a Teseo (Gianluca Guidotti), avversario e doppio del vecchio sovrano. Drammaturgia di confronti serrati: scene quasi sempre a due, nelle calibrate oscillazioni di equilibri sottili.
Dal basso del Cimitero si risale su su, all’edificio in pietra, il Labirinto, architettura mostruosa che cela e protegge il frutto ancor più mostruoso d’un abominio. Eppure, Arianna ama il fratello, d’amore vero e umano, mutando la bestiale passione della madre in fraterno legame, inscindibile e solidale. Cortázar denuncia un potere che si specchia e riproduce, oppressivo e ineluttabile, incapace d’abbracciare la complessità. Uomo, appunto, e maschio.
Il filo rosso affidato a Teseo prima che questi uccida il Minotauro, lontano dai nostri occhi, s’accompagna a un messaggio sibillino («Digli che questo filo te lo ha dato Arianna…») destinato all’equivoco, non istigazione assassina. Eppure, la storia si compie e, con essa, la perpetrazione rituale del dolore che è la linfa vitale del teatro: resta la possibilità del racconto, testimoniata, nel testo, dal Citarista (Elio Guidotti) e del Gioco, di specchi e rifrazioni, ulteriori innescate dalla messinscena, tra cui l’Arianna bambina della brava Antonia Guidotti (cognome non casuale: i giovani figli di Enrica e Gianluca). Le note d’un tango (di Edgardo Cantón, testo dello stesso Cortázar) chiudono uno spettacolo non facile quanto abbacinante.