Teatro e video, ambiti antipodici assai più di quel che si stimi: il materiale impiegato (gli attori) non inganni, giacché qualsiasi sorta di filmato si nutre non di carne, ma d’immagini, fotografie, riflessi, in una dimensione fantasmatica inevitabile. Per non dire del punto di vista: libero e individualizzato nella sala teatrale (e propenso alla non identificazione spettatore/attore), guidato dal mezzo (il fuoco dell’obiettivo, il montaggio) per qualsiasi prodotto filmico.
È, quindi, delicatissimo il passaggio da palco a schermo, specie se l’intenzione non è documentaria, ma espressiva: all’arte della scena deve così accompagnarsi quella della ripresa, se un’opera vuol esser tale e, al contempo, “servire” quella sorgente.
Le false confidenze, commedia che Marivaux scrive nel 1737, acquisisce, nella versione video di Toni Servillo più volte trasmessa da Rai5, un’ulteriore punta acidula, ben resa dal montaggio convulso e straniante. L’intrigo amoroso alla base del testo è un amaro minuetto menato da Dubois, servo di nome, non di fatto: centellina con cura le informazioni, da grande conoscitore dell’animo umano, manipolando Dorante, ex padrone, e Araminte, sua attuale signora, per un rovesciamento di grande pregnanza filosofica. Le confidenze, false o comunque dosatissime, rappresentano i fili coi quali il servitore muove le marionette del “proprio” teatro, in una mirabile sovrapposizione di funzioni registiche tra attore e personaggio.
Andrea Renzi tratteggia un amoroso appassionato, giusto, assennatissimo: troppo corretto, e stucchevole, per esser vero. Né Servillo né Marivaux sembrano stimar granché questo borghesuccio in ascesa; non che vada meglio alla vedova, un brillantissima Anna Bonaiuto, che tanto forte e bene s’oppone alla madre bisbetica (Betti Pedrazzi, da applausi) quanto frana, cedevole come una sciacquetta, alle lusinghe di Dubois. Peggio ancora, Marton, altra governante: illusa da Remy, il pragmatico zio di Dorante, è incapace, innamorata provetta, a distinguer lucciole o lanterne. Monica Nappo vibra di patetica ingenuità, conferendo, però, al personaggio un che di autenticamente fragile al di là del ridicolo. Sontuoso è, infine, Gigio Morra nel cucirsi addosso il ruolo dello zio, ben calibrando assennatezza (le cose più sensate, le dice proprio lui) e chiassosa forza espressiva.
Si torna sempre a sragionar d’amore, controverso e mal compreso impulso che fa delirare, sognare, piangere: appicca incendi, lasciando, spesso, devastazioni. La ricerca di Servillo si concentra altrove: nel denaro. Sempre e comunque di pecunia parlano tutti (mirabile la serrata traduzione di Cesare Garboli), ossessionati dai mutevoli equilibri sociali dell’occidente Ancien Régime sullo sfondo. Poca o nulla fiducia traspare da questa commedia scura per la luce distillatissima: l’ambiente unico, razionale, ricco d’aperture, è sfondo all’azione di caratteri in sgargianti fogge d’epoca, per un ficcante contrasto tra metafisico e verosimile. Ulteriore elemento dissonante, l’inquietudine fatta suono delle incessanti pulsazioni ritmiche d’una batteria che scandisce il tempo, o il denaro a mo’ di registratore di cassa.
Poca o nulla fiducia nell’uomo, se basta un servo cum grano salis a indirizzare il destino di sei persone, quasi tutte di ranghi superiori. La comédie humaine, nella sua svenevole banalità, è servita, per un Marivaux annerito dal filtraggio servilliano (l’allestimento scenico è d’una dozzina di anni fa), che sembra anticipare Balzac o, addirittura, lo sguardo cinico d’un Rossini. Non è amore, quell’amore, sembra voler mostrare, a noi pubblico, l’arguto Dubois, al termine d’una commedia dove si ride, ma non troppo. Non c’è consolazione, e proprio per questo gli applausi sono ancor più meritati.