C’è qualcosa di perfetto e raggelante nelle regie che Arturo Cirillo ha proposto negli anni, accerchiando, con abile rigore, classici e contemporanei, quasi a voler dimostrare la completezza della propria versatilità. E dopo il ruccelliano Ferdinando, che sotto il profilo dialettale poteva ricollegarsi al Don Fausto di Antonio Petito, ecco che il teatrante di Castellammare di Stabia si confronta con un classico contemporaneo internazionale: Zoo di vetro di Tennessee Williams.
Famigliare «dramma di memoria» filiforme e composito, lo Zoo è una storia di mestizie domestiche, in apparenza sparigliate, come spesso accade, dall’arrivo d’un personaggio esterno che non riesce a mutare il quadro d’insieme, finendo per configurarsi, al contrario, con gli spietati contorni di un’occasione perduta. Cirillo riserva a sé, come prevedibile, la parte di Tom, il figlio che, in una serie di monologhi scientemente antinaturalistici, ricorda le figure della madre e della sorella; cornice testuale obbligata per innescare il meccanismo del teatro quale coazione a evocare, ritualizzando la memoria fattuale nella ritornante proposizione scenica.
Tutto prende corpo e spazio in un ambiente realistico di finissima illuminazione pittorica: Amanda è una smagliante Milvia Marigliano, calata nei panni rotondi della madre ripetitiva e ossequiosa. Le sequenze d’insieme traducono quasi con cattiveria l’assoluta irrespirabilità di qualsiasi conversazione prandiale in famiglia: Tom, insoddisfatto e rancoroso, si nega alle petulanti attenzioni della genitrice per concentrarsi su Laura, la sorella claudicante, la cui unica consolazione è nei propri, adorati animaletti di vetro. Monica Piseddu ne dà un’interpretazione minuziosa e dolciastra, con punte d’asprezza. Ad avvolgere tutto, e la scelta ci pare tra le soluzioni più indovinate della scrittura scenica cirilliana, voce e musiche di Luigi Tenco: un giradischi al lato della stanza che traduce la malinconia di Tom, la sua nostalgia d’una (im)possibile altra vita. Il rifugio è in quelle note, oppure oltre la porta di casa: non, come spesso capita agli uomini, per menefreghismo indomito. La sua è una fuga malmostosa nei sogni proiettati dei cinema ove si reca ogni sera, o nei fumi alcolici.
L’arrivo di Jim (Edoardo Ribatto) è l’occasione per disinnescare la paralisi, andando a modificare l’asfittica stasi che affligge il trio nell’insopportabile quanto consueta cattività casalinga. Non sarà così: Jim, principe inetto e in niente azzurro, non spezzerà l’incantesimo, riconsegnando Laura al suo «inganno dell’immaginario» e lasciando le cose così come le aveva trovate. Zoo di vetro è, in tal senso, una favola a tetro fine, novella sapientemente abortita nella sua dimensione risolutiva, nel suo dipingere la vita dei protagonisti (simile, in fondo, a quella degli spettatori) come un vano, ineluttabile agognare impossibili vie d’uscita. Che non sono date, né ora né mai.
Cirillo ha il merito di precipitare il tutto in un congegno di fine fattura, con forse il limite d’una perfezione algida che, alla fine, ottiene più ammirazione ragionata che adesione sentita, rischiando di non incidersi come potrebbe nella memoria emotiva dello spettatore. Ed è canticchiando Un giorno dopo l’altro (sigla finale dei meravigliosi Maigret con Gino Cervi, canzone inspiegabilmente esclusa dalla colonna sonora dello spettacolo) che culliamo sino a casa questo dubbio, esaurita la visione d’uno spettacolo comunque rimarchevole.