Cosa chiedere, oggi, a un’opera buffa di fama planetaria? Senza dubbio di divertire, abbinando riconoscibilità (capzioso vantaggio implicato dalla musica) a invenzioni per tradurre in scena e con una certa coerenza il buono che risiede tra i righi di pentagramma. E se la partitura è quella di Almaviva o sia L’inutile precauzione, intramontabile «capo d’opera» rossiniano meglio noto come Il barbiere di Siviglia, si può star certi che già un’efficace esecuzione orchestrale ipotechi il successo in tal senso.
L’Orchestra Giovanile Italiana ha quindi merito nella felice affermazione figaresca presso il Giglio di Lucca: l’ensemble, composto da musicisti sotto i trent’anni (la verde età è un dato, non un merito), ben risponde alle sollecitazioni impartite da Nicola Paszkowski, in pedana per una rilettura conscia dell’ultima edizione critica di Alberto Zedda, alternanti soffuse rotondezze di gusto abbadiano a più spregiudicate e impennanti vigorìe. Facile dovrebbe essere il gioco degli allestitori, cui basterebbe applicare, certo, invenzione, senza complicar troppo le cose o, al contrario, rischiare svilimenti.
Sin da principio l’impressione è, però, che la strada percorsa sia ad altissimo coefficiente di difficoltà: accoglie il conte d’Almaviva (Federico Buttazzo, avvio quasi in sordina, poi si rifà) uno scalcagnato assembramento di coristi in t-shirt (D’Almaviva Rock Band, superflua d apostrofata inclusa), ammiccando maldestramente in stile rock. Il contino stesso è sospeso tra Fonzie e Amadeus: giacca in pelle e parrucca stile Settecento forse rimastagli in capo da un precedente spettacolo. La coreografia è in linea alla vaghezza d’insieme, nella dichiarata intenzione d’infondere tocchi surreali alla messinscena. L’ampio ambiente, solcato da ingombranti carrelli, di Pier Paolo Bisleri sposa così due chiavi: quella glam e quella legata al mondo dell’acconciatura, abbinamento non troppo incline a illuminanti intersezioni.
Manco male, il quid viene dagli interpreti: William Hernández è un Figaro brioso ed eccessivo, più mercuryano che mercuriale (il repertorio di ancheggiamenti richiama il front man dei Queen oltre al Moonwalk di Michael Jackson), la Rosina di Alessia Martino è maliziosetta nel mettere a nudo le forme affusolate e non solo una voce comunque apprezzabile, il Bartolo di Davide Franceschini è il più convincente del lotto, calibrato e mobile, a proprio agio nelle vesti sgargianti che, per assurdo, lo rendono poco «barbogio» e assai meno improbabile dell’avversario di pugna amorosa.
All’indomani della pirresca vittoria lirica sul terreno sanremese del (nazional-)pop(olare), questo Barbiere dalle opinabili scelte sceniche (non ultimo il Basilio del bravo José Gabriel Morera, costretto a una disagevole mise pipistrellesca), ci pare riflettere una preoccupante resa sul terreno dello Scherzo, nel voler a ogni costo virare alla strizzatina d’occhio, abdicando, invece, all’orditura del Gioco. Un trionfo di trovate estemporanee, come l’insistita brama a venir sculacciata di Berta (Simona Marzilli), tratto qui saliente d’un personaggio impoverito rispetto al dettato (concessione alle sfumature che affollano i cinema in questi giorni?), ossia la governante che osserva, non senza rimpianti, il delirio d’amore («male universale») che affligge la casa.
Grazie a dio, anzi a Rossini, c’è la musica, che tutto salva e regge, anche quando le voci si scollano un poco dai tempi orchestrali. Il pubblico è festante e ne gioiamo, pur con qualche perplessità.