È una scena bipartita ad accogliere un pubblico sparuto e spaurito: salotto minimal-metonimico sulla destra dell’avanscena, una squallida cameretta a sinistra sullo sfondo. Bipartita, o meglio dimidiata, così come l’anima del Bianciardi/Faust di cui Angelo Romagnoli veste gli abiti dimessi e i sogni dismessi, seppelliti come gli operai della miniera di Ribolla che intendeva vendicare, dopo il crollo del 1954, facendo saltare “il Torracchione” della sede milanese della Montecatini.
Ed eccolo, all’inizio, questo Bianciardi-Autore credibile ma non creduto, confuso dalle seduzioni di un salottino letterario per palati di borghesi piccoli piccoli: accomodato alla destra del proscenio, sotto una luce calda dalle salmonate risultanze cromatiche di Polaroid, tenta una strenua difesa delle sue intenzioni letterarie, sociali e umane, vanificate dal muro di gomma dei sorrisi di una giornalista (Rita Felicetti), compiacente padrona di casa che celebra con consunta ipocrisia l’opera misconosciuta di uno scrittore dato in pasto a un pubblico ebete addestrato all’applauso.
Romagnoli/Bianciardi cerca di divincolarsi dal viluppo di piaggerie a buon mercato, finendo per sbracciarsi e sbraitare, in un eccesso d’ira da sacro furor poetico: ribellione fonicamente soffocata dalle canzonature della giornalista che si amplificano fino a tramutarsi in infernale fragore di macchine (efficace ma un po’ prevedibile il tracciato sonoro di Stefano De Ponti) che lo fagocita in un ventre d’oscurità per poi risputarlo in un flashback all’opposto della scena.
Qui, nella desolazione di una camera a pensione disadorna e ingrigita come la carta da parati che la fodera, si consuma l’impari lotta del protagonista contro la stritolante società dei consumi degli anni del miracolo economico. Ben altro è, però, il boom che ha in mente. Animato dal progetto di un attentato dinamitardo che scuota le intorpidite coscienze metropolitane, la sua quotidianità naufraga nel pelago di scadenze che attanagliano la sua esistenza immeschinita dalla mercificazione del lavoro di traduttore a cottimo. Costretto a produrre cartelle e a dosar gli spiccioli, sopravvive insieme alla compagna Anna (Claudia Pinzauti) che con lui condivide la stanza e l’istanza rivoluzionaria, oltre all’opera di traduzione del Faust con cui cercano di guadagnarsi pane e tritolo. Fra un’apertura di virgolette e una di cosce, lo scrittore cerca di sfuggire all’in-Faust(o) destino rifugiandosi in un amplesso martellante con Anna, sfogo sempre più concitato e pneumatico.
Dopo il sonoro orgasmo di matrice metalmeccanica, Gianni Farina (regista dei faentini Menoventi) orchestra una catartica modulazione verso la promenade nella traccia off declamante l’aspirazione di Bianciardi (tratta dalle pagine conclusive di La vita agra) per un’economia improntata a un «neocristianesimo a sfondo donativistico e copulatorio».
Il protagonista si ritrova, però, in compagnia della padrona di casa (sempre Rita Felicetti), che al termine del coito gli ricorda i termini del contratto d’affitto e lo seduce/induce a firmare un “contratto sociale” col quale abdica a qualsiasi intento libertario e pauperistico in favore della comunità, dell’integrazione, della sopravvivenza.
Il patto è siglato, Mefistofele ha vinto. Forse è un lieto fine mancato che delude il pubblico, una sessantina scarsa di persone che applaudono con poco e agro vigore.