Ogni scarrafone è bell’ a mamma soja: così recita un celebre detto napoletano che rispecchia in pieno la relazione tra le due sorelle Materassi e il nipote Remo. Dopo una vita dedita ai risparmi, a racimolare denaro grazie alla dote del ricamo, Teresa e Carolina riescono a riacquistare i beni che il padre scialacquone aveva perduto. Crescono in casa il figlio di una sorella scomparsa viziandolo come il bambino che loro non hanno mai avuto. Peccato che il nipote se ne approfitterà sin troppo, sulle orme del nonno, sperperando i beni accumulati con parsimonia dalle due. È la storia che si ripete all’interno di un nucleo familiare che viene narrata nelle pagine di Aldo Palazzeschi e Ugo Chiti riadatta per la scena, consegnandola nelle mani del regista Geppi Gleijeses.
Cast d’eccezione: attrici navigate ed esperte quali Lucia Poli e Milena Vukotic, affiancate da Gabriele Anagni. Lo spettacolo, sin dall’inizio presenta, alcune incongruenze, trascurabili grazie alla bravura e al carisma degli interpreti. Il sipario si apre, scoprendo un ulteriore velo in tulle, a simboleggiare un sogno, su cui vengono proiettate le ombre delle sorelle intente a chiedere benedizioni per i propri defunti al Papa. Vukotic, per scelta registica, si trova quindi costretta a prendere le mani del presunto pontefice e porsele sul seno, ripetutamente, come per svolgere il classico gesto penitente del mea culpa, dando vita a un’autentica scenetta basata sull’equivoco, a nostro avviso un po’ forzata per il personaggio. Poco dopo, il nipote Remo, in uno sbotto d’ira, solleva una sedia con l’intento di gettarla addosso alle zie, ma sembra bloccarsi senza che si capisca perché. L’impressione è quella di un regista-burattinaio che cerchi di forzare gli attori in soluzioni consone alla propria idea di teatro, senza però preoccuparsi di quanto queste siano adatte e all’allestimento e agli interpreti veri e propri.
La bella scenografia, firmata Roberto Crea, presenta una sala interna da cui, tramite vani laterali, s’accede ad altre stanze, mentre, dal fondale aperto, si può raggiungere il giardino. L’ambiente non ci pare sfruttato appieno dal regista, che imposta lo spettacolo concentrandosi quasi esclusivamente sul centro della scena, ove è ubicato il tavolo intorno al quale le sorelle praticano il lavoro di sarte. Verrebbe da dire che sia la regia, dunque, la nota dolente del lavoro: la riscrittura di Chiti ci sembra, infatti, di grande potenziale, ricca di sfumature toscane, con vezzeggiativi e parole strascicate in una puntuale e mai banale koiné vernacolare, arricchendo il testo di una rinnovata e ulteriore comicità. Lucia Poli, inoltre, esalta il lavoro drammaturgico, non solo per la fiorentinità: interpreta la sorella più burbera e irruenta con modulazioni vocali che, in determinati momenti, toccano tonalità bassissime, cupe, facendo letteralmente scoppiare in fragorose risate il proprio pubblico. D’altro canto, Vukotic è perfetta nella sorella svagata – ruolo dalle soluzioni tutt’altro che ignote per lei – valorizzando pure la grande mimica facciale: ora sbarra gli occhi, ora apre la bocca in una posa da maschera. Una menzione va anche a Niobe, domestica tuttofare e impetuosa nei modi e negli ingressi in scena, nel corpo della brava Sandra Garuglieri.
Gli ingredienti parrebbero esserci tutti, peccato che l’amalgama non funzioni e la ciambella non esca propriamente con il buco.