Il rapporto teatro-morte non è mero assioma naturale, storicamente dato e filosoficamente plausibile, bensì qualcosa di necessario. La sospensione del gesto, la sua proiezione rituale, la sua reiterazione cristallizzata sono elementi comuni a qualsiasi performance, consapevole o meno: quella cosa, ovunque si dia, si trovi o venga disposta, s’irradia in luogo magico, liminare e misterioso.
Con simili premesse, approcciamo l’arte di Lucia Calamaro, drammaturga e regista, contemporanea e al contempo antica, com’è logico che siano antichi i grandi contemporanei. Da anni, le sue opere circolano sulle scene, italiane e non solo, in un contagio silente, inesorabile: percorso comune a la non-scuola romana, come Nico Garrone definì, con lei, Daniele Timpano, Andrea Cosentino e altri.
La vita ferma segue il premiato L’origine del mondo, costituendo un approdo saldo nel percorso calamariano, ancor più del precedente, di cui conserva tratti salienti. Dramma a tre, in uno spazio ampio e pulito da rasentare il metafisico eppure concretamente teatrale, nelle sibilline invenzioni sceniche. Esempio: quando il paradossale dialogo tra vedovo (Riccardo Goretti) e appena defunta moglie (Simona Senzacqua), ma non ancora dipartita, si schiude al flashback del primo incontro, anni prima in un planetarium; uno degli scatoloni che definisce lo spazio (l’uomo sta traslocando) si rovescia, liberando uno stormo di biglie che, complice l’opportuno cambio luci, muta in cielo stellato l’intero pavimento. È un nulla, ma lì, proprio lì, sta il teatro, la potenza evocativa, la possibilità di sorpresa, senza bisogno d’effetti speciali: l’efficacia della poesia contrapposta alla muscolare potenza della prosa.
I due parlano, parlano e parlano, come sempre, nei lavori di Calamaro: nomi, aneddoti e invenzioni sono abrasivamente ricalcati e ripresi dalle biografie degli interpreti concreti, in un rapporto ironico quanto sfuggente tra scena e realtà, soluzione non ignota a Daria Deflorian (protagonista, non a caso, di L’origine del mondo) e Antonio Tagliarini. Eppure, il piano drammaturgico di Calamaro risulta più stringente, furioso e, soprattutto, necessario: non percepiamo lo specchiato compiacimento di certe messinscena contemporanee, l’appoggiarsi complice a malizie di maniera, bensì l’assoluta urgenza di toccare certi punti, a costo, anzi allo scopo, di farsi male, ancor più male. Eppure si ride, e non poco, per l’ostentata imbranataggine di Riccardo, la svagatezza di Simona e pure il puntiglio di Alice (Redini), figlia, fanciulla e poi donna: sulla tomba materna, ritroverà il genitore invecchiato, ormai distante dopo quel lutto consumato anni prima. Tre ore di spettacolo scivolate come una lama rovente nel burro: incredibile per uno spettacolo quasi esclusivamente parlato.
Chi sono i morti? Si chiede, ci chiede, Calamaro: non è metafisica; forse religione, nel senso di tenere le cose assieme. Che tracce lasciano, in chi resta, le persone, i volti, le parole? Interrogativi che aleggiano in questi sguardi sul dolore del ricordo per un dramma di pensiero in tre atti, amaro d’un dolore tanto sperimentato che quasi sembra abdicare alla disperazione. La traduzione scenica è potente, intensa, a tratti persino spassosa, grazie agli interpreti rodatissimi e a un’efficacia tutta teatrale. Operazione convincente, pure al di là del suono, troppo piatto, senza profondità, e non per errore tecnico: l’impiego di microfoni è coerente col pensiero del sottotitolo, con l’esigenza manifesta di farsi intendere dallo spettatore, ma, a parer nostro, è in aperto conflitto con la prospettiva d’un teatro che sia anche suono, e non solo parola su immagine. Applausi comunque, e parecchi.