Orizzonte perduto, trafitto dalla tecnica, superato dall’informazione, da tutto ciò che ci rende moderni, post-galileiani: il mito, nella sua natura intrinseca, è ciò che rimanda a un altrove e a un qualcosa di archetipico e condiviso. E incarna, tuttora, alcune profonde contraddizioni della nostra cultura, progressiva, proiettata al futuro, nonostante le radici piantate in Ellade. Il “nostro mito” è quello greco, adottato e adattato dai Romani, tuttora pulsante, a livello carsico, nel nostro modo di osservare e rinarrare il mondo.
Da qui ripartono I Sacchi di Sabbia, dopo aver giocato a e con Sandokan, Don Giovanni, gli Ultracorpi, i maggi cantati: oggetti anch’essi parte d’una mitologia, seppur dimidiata, di tutt’altro grado. Ripartono e giocano, in ciò coerenti alla divinità cui si debbono Gioco e Teatro questa volta, accompagnati da Massimiliano Civica: a lui, forse, si deve lo spunto da Luciano di Samosata, per una comicità tanto irresistibile quanto ben pensata, e ancor meglio messa in opera.
Un’aula scolare s’illumina d’un piazzato neutro: in cattedra, a sinistra, Giulia Solano, pignola e maestrina sin dalla mise; sulla destra, i banchi, con Enzo Illiano e Gabriele Carli, improbabili, buffoneschi alunni; in posizione centrale, sopraggiungono, agghindati da dei ellenici secondo iconografia, Giovanni Guerrieri e Giulia Gallo.
Il pensiero corre alla splendida rilettura da Mozart (anche lì, adulti scolaretti e Solano cipigliosa direttrice), ma pure ai Giancattivi della scenetta del Dondi (pazzesco che Youtube non ne serbi traccia). L’allestimento si dipana come una ridicolosa interrogazione sul mito, gestita con malefica iniquità dalla maestra. I due dei stanno lì: al variar delle scene, mutano di entità, senza cambiar costume. Ascoltano e, di quando in quando, scagliano saette ai pargoli in caso di risposte non gradite.
La comicità s’esprime, come sempre per I Sacchi, a più livelli: in primis, vi è un lavoro sui tempi, calibratissimi, con cui le battute sono portate, intrecciate a più voci, sovrapposte. È ben da prima di Tragos (2004) che il gruppo si distingue per una recitazione ardita, eppure mai virtuosistica o fine a sé stessa: il risultato è quello di risucchiare lo spettatore in un gioco di pause ed esplosioni cui si sommano le puntualissime caratterizzazioni. In questo caso, il “capro” Carbone a far da Augusto (il clown vittima; Carli nella fattispecie) e il canagliesco Parrotto di Illiano, irresistibile pure per la sempre più illanguidita professoressa (al «Parrotto ti amo…», offerto con malvagia nonchalance, la platea letteralmente esplode). Si aggiungono, però, la parodia, ben condotta, d’un ambito che il pubblico “riconosce”, e, soprattutto, un terzo livello: l’impiego del mito a scardinare il nuovo perbenismo imperante, quello di chi, sentendo parlare di gender, mette mano (non sempre metaforicamente) alla pistola.
«Che sudici, questi Greci…», il tormentone del tormentato Carbone, spregiato da insegnante, divinità e compagno tra loro coalizzati. Eppure, quel sudiciume ci ricorda come certe dinamiche siano complesse, e come culture precedenti alla nostra sapessero maneggiarle con assai maggiore proprietà, alla faccia del (presunto) progresso storico.
Rispetto ad altri spettacoli sacchiani, di cui comunque questi Dialoghi conservano tracce significative, s’avverte la mancanza d’una stretta in più, un che d’urgente che sempre troviamo nel loro lavoro e che fa di questa formazione una tra le gemme più preziose (e, per opinabili motivi di collocazione, sottovalutate) del nostro teatro. Nondimeno, ci uniamo all’applauso caldissimo del caparbio Teatrino Zero, in quel di Spinea.