Elvira di Toni Servillo, spettacolo prodotto da Piccolo Teatro Milano con Teatri Uniti, rodato da una fortunata tournée (ne abbiamo parlato qui e qui), sbarca in laguna ed è subito un must: per un evento “da non perdere” nella bella e mondana Venezia, ovvio che Arlecchino s’intrufoli in platea forte dell’adagio «Non c’è due senza tre».
Recite sold out al Teatro Goldoni per l’attore-regista pluripremiato che, furbescamente, inganna lo spettatore e lo incastra davanti alle pagine meravigliose della teoria teatrale del Novecento e dello studio sull’attore. È infatti una lezione di teatro quella che Servillo propone al grande pubblico, di tenore uguale a quelle di Eduardo e Dario Fo, ma filtrata attraverso il testo (meta)teatrale di Brigitte Jaques, quindi maggiormente fruibile.
La scena è, di fatto, il palcoscenico: la pedana rettangolare rialzata costituisce lo spazio di prova di Claudia-Petra Valentini e dei suoi compagni di scena, gli attori interpreti di Sganarello e Don Giovanni (Francesco Marino e Davide Cirri). Dal buio del fondale si intravede qualche sedia e una radio, unico strumento che aggancia quel mondo alla realtà e, parlando in tedesco, materializza il contesto.
Elvire Jouvet 40 costituisce la riscrittura di sette lezioni che Louis Jouvet tenne al Conservatoire di Parigi nel 1940 sul personaggio di Elvira del Don Giovanni di Molière e sulle sessioni di prove nelle quali lavorò, corpo a corpo fin quasi allo sfinimento, con la giovane allieva dell’ultimo anno Claudia.
Prove noiosissime. Il concetto stesso di prova non può prescindere da una profonda e totale componente di noia. Anche l’inizio di Elvira risente, dunque, di questa estrema lentezza. La comunicazione tra la scena e il pubblico nasce (volutamente) fredda e poco coinvolgente. Il pubblico tende a perdere l’attenzione, ma ecco che, pian piano, la reiterazione trova il ritmo giusto e si fa quasi ipnotica. Lo spettatore è trascinato nel loop del monologo di Donna Elvira-Valentini e patisce, insieme all’attrice, lo scandaglio critico del regista.
Jouvet-Servillo, per contro, manipola le intenzioni alla base della recitazione di Claudia, viola e forza i sentimenti che ne sostengono il personaggio, incide sul testo, così come fa sui movimenti dell’attrice.
Dal canto suo, poi, l’attore ci offre un meraviglioso cammeo che potremmo dire “da ipnotizzatore”. Seguiamo le sue mani, il suo cantilenante discorso, il lunghissimo, ininterrotto monologo interiore che l’uomo imbastisce con sé stesso, l’attore con il suo lavoro, il teorico del teatro con il Teatro stesso.
Servillo, però, sa che al grande pubblico la cosa potrebbe anche non interessare e, allora, lo ipnotizza. Non riusciamo a staccare lo sguardo dalla sua figura, il gesto del corpo, tendenzialmente fluido – camminata con una mano in tasca e l’altra a ritmare il discorso – si blocca improvvisamente in silhouettes vertiginosamente instabili che, direbbe Garboli, ci fanno intravedere il precipizio sul quale l’attore, come un funambolo, ogni giorno si gioca la vita (leggi reputazione).
In 75 minuti, ecco proposto un saggio realistico sul lavoro dell’attore. È chiaro che la fama di un artista “da Oscar” aiuti Teatri Uniti a riempire le sale, ma questo non è certamente un male quando il prodotto, seppur non popolare, è di ottima qualità. Elvira non è una mera operazione commerciale firmata Servillo (come si potrebbe pensare di altre operazioni): Elvira è il genio di Servillo che sa dare, come Eduardo, un colpo al cerchio e uno alla botte.