Quasi. Non come, simile, alternativa.
Treccani recita «Circa, pressappoco, poco meno che», per un avverbio che abita il campo semantico dell’approssimazione, dell’avvicinamento.
E una vita.
Come fosse inquadrabile, la vita, come fosse possibile porvi attorno una cornice, farne un quadro. Come se non fosse abbondanza liquida, tracimante, irriducibile alla descrizione.
Allestimento sottile questo Quasi una vita, alla cui realizzazione concorrono più personalità artistiche, in uno sforzo dai contorni controversi: scrittura di Stefano Geraci, materia prima di Giovanna Daddi e Dario Marconcini, con la presenza mercuriale di Silvia Pasello, Elisa Cuppini, Francesco Puleo e Tazio Torrini. Infine, la regia di Roberto Bacci. Ogni segmento rappresenta, in potenza, un valore, positivo e negativo: accrescimento e, al contempo, rischio d’interferenza, di rumore.
Ogni opera fondata sulla pluralità di codici si confronta con tale paradosso.
La fattispecie è, però, ancor più peculiare: la vita in questione sarebbe quella, dipanata tra scena e altrove (o viceversa), di Dario e Giovanna, attori, artisti, amanti. Tributo, eppure no: si dice di loro, li si inscena, benché la carne della loro storia, teatrale e sentimentale, rappresenti, ovviamente, la scusa per parlare d’altro. Di noi, di tutti, di nessuno.
L’ambiente è ocra: sala sgombra, “apparecchiata” a riceverci, con la cauta accoglienza del cast già in parte. Totale è Giovanna: il semplice esserci, di nero fasciata, è bastante a riempir la scena. Diva, divinità, Medea sensuale e potente.
Al suo fianco, Dario, meno ieratico, in abbondante completo grigio: snello, quotidiano.
Si parlano, come sempre, con la sottile complicità delle “loro” coppie pinteriane: divagano tra ricordi balneari, come polverose cartoline rinvenute in soffitta, e dolori, carezzati con delicata intesa. Belli sono: lui smarrisce il peso degli anni, per guadagnare un che d’aguzzo e fanciullo, come certi volti di Andrea Pazienza.
Si elude il narrativo, ed è bene: Cuppini e Puleo, bianchi spiritelli come gli altri, intervengono a sospender la (non) azione. Una porta campeggia, priva di parete, a sinistra: il battente (la parte mobile) chiude e schiude su due “cornici” ad angolo. Presenza magrittiana, ambigua e umoristica: serrandosi, si schiude dall’altra mano, nell’incessante affacciarsi altrove, sia esso il teatro o il susseguirsi di eventi, minuti o fondamentali, a formare una vita. Quali sono quelli che contano? E cosa conta?
La scrittura s’ammanta di tentazioni faustiane e l’approdo metafisico oblitera la biografia encomiastica, benché si rischi l’incaglio nel compiacimento di una forma comunque non risolta, come incagliata tra possibilità accennate e non efficacemente percorse.
Protagonista addiviene Dario, lui il fulcro più che la vita comune dei due, in un gioco che si dilata e addolcisce, s’aggruma e intensifica. Come quando Torrini gli pitta il volto a farne maschera, o gli stampa un bacio sulle labbra.
L’aderenza (alla scena, al testo, all’urgenza) vacilla, troppo, e con essa il gioco di specchi, di rifrazioni, nel rischio d’una gratuità controproducente. Tutto s’assesta sulle spalle dei due interpreti principali, cullati dall’affetto d’un pubblico che li conosce e li ama. Mancano, però, le scosse, ed è un peccato; come quando Torrini “esce” dal carattere ancillare e “parla a Dario”: non collasso formale, ma infiltrazione d’un altrove non di maniera.
Applausi, comunque, per un tentativo complesso, tutt’altro che banale; specialmente a due grandi artisti che sono pure non meno grandi persone. Non sempre, anzi, è così.