La stagione lirica del Verdi pisano si apre con un appuntamento d’eccezione: The beggar’s opera nella produzione internazionale firmata da Robert Carsen, regista attivo nei principali teatri del mondo (anche su questi schermi abbiamo dato conto del suo Falstaff scaligero). L’eccezionalità, tuttavia, non è data soltanto dal nome pesante, ma pure dal titolo scelto, che non è esattamente quello che ci si aspetterebbe al debutto di una stagione lirica in un teatro di tradizione. The beggar’s opera è stata composta nel 1728 da John Gay e Johann Cristoph Pepusch come reazione allo strapotere dell’opera italiana, le cui caratteristiche sono state sempre recepite in modo peculiare in Inghilterra. In questo caso, Gay e Pepusch portano avanti un’idea di teatro musicale radicalmente diversa: attingendo dal repertorio folk britannico, creano una storia intorno a canzoni già esistenti (come Mamma mia! o Singing in the Rain). Questi momenti lirici, spesso di stampo paremiografico, evitano anche solo il rapporto oppositivo con la coeva opera italiana (salvo qualche accenno parodico), cercando di creare qualcosa di diverso. In questa sorta di protomusical i brani si alternano alla recitazione, delineando una trama (embrione della più nota L’opera da tre soldi) che si snoda nel mondo del malaffare: gang, faccendieri, prostitute, ladruncoli. Il protagonista (Macheath/Benjamin Purkiss), conteso tra più donne a cui ha promesso fedeltà, rischia di essere impiccato sennonché, nel finale, tutti i malviventi diventano membri del governo. ça va sans dire.
Quella che vediamo sul palco del Verdi è, però, un’operazione ancor più peculiare. Ian Burton, con lo stesso Carsen, ha scritto una nuova versione della ballad opera, attualizzando le parti recitate, con tutti i riferimenti del caso (alla Brexit, a Theresa May, al Royal Wedding). Tutto in inglese, con accento fortemente cockney, da una compagnia del West End per cui il canto (non impostato come un melomane si aspetterebbe) è solo una delle abilità, non prioritaria rispetto al ballo o alla recitazione. Lo spettacolo, quasi due ore senza intervallo, si svolge in ambiente unico apparentemente semplice, ma versatile e sapientemente sfruttato dalla regia: James Brandily ha ideato una muraglia di scatoloni parallela al proscenio, con diverse possibilità di apertura e trasformazione; altre scatole di cartone diventeranno ora piattaforma, ora bancone, ora scrivania.
La sapienza di Carsen è evidente a partire dal modo in cui costruisce lo spazio, utilizzando gradualmente le possibilità offerte dalla parete e stabilendo convenzioni semantiche con lo spettatore. Al di là della sede in cui lo vediamo (ha debuttato a Spoleto e avrà una tournée internazionale), lo spettacolo è molto audace e, per certi versi, prende di petto il pubblico: a sipario ancora aperto suona un allarme, le luci si spengono improvvisamente e una dozzina di attori inizia a correre in platea, sale sul palco e balla in stile break-dance. Altri sopraggiungono (i costumi di Petra Reinhardt li rendono tutti moderni mendicanti), poi si separano, tirano fuori dalle borse strumenti settecenteschi, si mettono sulla sinistra e iniziano a suonare. Carsen gioca sul contrasto tra l’anima metropolitana della componente visuale e quella barocca della parte sonora: «Let’s get the party started!» e inizia un’aria suonata da clavicembalo e arciliuto. Le musiche sono affidate a Les Arts Florissants, una delle formazioni più autorevoli di musica barocca: ciononostante, non c’è paura di sporcare un’esecuzione, pur curata e filologicamente corretta, tanto che spesso gli attori battono mani e piedi nelle loro coreografie.
Carsen impartisce così una vera lezione del senso della regia contemporanea: troppo spesso, nelle regie tradizionali ci si appoggia all’opera con intento mimetico, quasi vigliacco; qui, invece, il regista prende il testo, si sporca le mani, si assume responsabilità e lo rende prodotto vivo e pulsante, con rispetto, e impreziosito da un’esecuzione curatissima. Il teatro, pur pieno di abbonati abituati a tutt’altro, è caldo, reattivo durante la recita: coglie la sincerità che, unità a una grande maestria, garantisce un successo entusiasta.