Pagine su pagine son state scritte a proposito di cosa sia o debba essere la regia teatrale: da oltre un secolo, la questione attanaglia il mondo scenico d’Occidente. Chi ne sostiene la necessità, chi ne contesta i presupposti, chi, mediando, trova una cifra propria: lo si voglia o meno, il concetto di regia quale responsabilità autorale ha marchiato il nostro teatro, per sempre; e se, oggi, qualcuno ci chiedesse d’illustrarne esempi contemporanei, il pensiero andrebbe al recentemente scomparso Eimuntas Nekrošius per poi passare subito al connazionale Oskaras Koršunovas, ulteriore e non meno mirabile incarnazione della figura del regista.
Otto anni son corsi dalla nostra prima, folgorante visione: Hamlet (2011, Pontedera), cui seguì Miranda (2013, Lucca), poi Winter (2014, ancora Lucca). Capitoli distinti, eppure uniti da un’idea di teatro metaforico come corpo a corpo, che nulla tralascia dei testi adottati, facendoli, anzi, rilucere di nuovi cromatismi di senso, sempre urgenti, puntuali.
In un freddo, desolatissimo stanzone, quasi una sala d’aspetto da stazione secondaria, si snodano le tre ore (in lingua, con sopratitoli) di Il gabbiano: è il Gioco a predominare, esaltando al massimo grado la natura polifonica del dettato, per condurla a pieno compimento. La performance inizia a mo’ di concerto vocale, gli attori seduti, allineati a sinistra: parlano uno a uno, da personaggi, al pubblico. È subito mise en abyme, teatro nel teatro: gli interlocutori cui si rivolgono, azzardando tentativi d’italiano per accattivarsi l’ascolto, siamo e non siamo noi, seduti in sala. E il senso intimamente scespiriano del testo sorgente è già colto, in una ripresa che poco ha di filologico (tra pc e cellulari in scena), eppure centra il senso profondo dell’idea di Cechov.
Il gabbiano è, così, dispositivo scenico potentissimo, flessibile: tragico, drammatico e comico al tempo stesso, e gli attori al servizio di Koršunovas sono giocatori d’una squadra splendidamente schierata, a prescindere dal valore individuale: è il coro che domina, il disegno totale, la mano invisibile che tutto armonizza e che mai più precisamente potremmo definire regia. Interpreti efficaci, nel pianto come nel riso, così miseri, sgarrupati, illusi. Su tutti, il Dorn di Dainius Gavenonis, sia per la recitazione (presenza atletica e carisma, capacità metamorfica a segnare il tempo trascorso) sia nell’economia dell’allestimento: suo lo sguardo sapiente, quasi esterno, doppio del regista stesso.
Il lituano non è ostacolo né sfoggio esotico, ma sciente forma sonora, acuminata come la musica new wave che caratterizza la prima parte, a rafforzare le sensazioni claustrofobiche alleggerite dalle mai gratuite trovate attoriali. «Chi ritarda è un gabbiano», annunciando la breve pausa.
Centottanta minuti in un soffio, per un capolavoro che fa ridere, piangere, pensare.
Anni addietro, dopo una gagliarda messinscena della pièce da parte di Woody Neri, sentimmo asserire che Il gabbiano sarebbe dramma «non adatto al contemporaneo»: trasalimmo. In questo testo s’annidano tutti i temi, individuali e collettivi, della nostra (e di ogni) epoca: l’aspirazione artistica (effimera o meno), la fragilità dei sentimenti, la complessità delle relazioni, delineando perfettamente la comédie humaine che ci attornia (e pure coinvolge); tutto questo, con una solidissima coscienza del fare teatro. Ecco perché parliamo di classico.
E Koršunovas, grazie alla rara maestria nel dare corpo ai testi, da un simile spartito trae materia per un autentico capolavoro scenico, memorabile. Mortale non aver trovato una sala stracolma: questo sarebbe il teatro da far vedere a tutti, proprio tutti.