Due ragazzi, anzi, due picciotti, e una Palermo di suoni grumosi, profumi palpabili, abitata da quella calda, caotica umanità comune a ogni Sud del mondo, quasi tributo a un Pasolini per una volta non direttamente citato. Due fanciulli, fragili e forti, rovescio e doppio l’uno dell’altro: il bullo e il mezzo scemo, lo scimunito e il guappo. Diversi, eppure stretti da un laccio indissolubile, che rappresenta, nella sua intima essenza, l’autentico principio di mutua solidarietà su cui si fonda l’umano.
Non si scappa: specie parassitaria, l’homo sapiens sapiens sciama e prospera in massa sulle spalle dei suoi migliori esemplari, mettendone a frutto l’inventiva; al contempo, il successo di tale specie è inscindibile dalla propensione efficace a proteggere i più deboli (l’accudimento infantile è l’esempio più chiaro, ancorché meno probante), nell’impulso all’aiuto per quelli che non ce la farebbero.
Tratta di questo spirito solidale, e non solo, l’A testa sutta di Giovanni Carta e Luana Rondinelli, lavoro importante e degno: pure oltre le intenzioni degli autori, encomiabili, ma, in quanto morali, mai sufficienti, di per sé, a giustificare, “salvare” un’opera. La maggior qualità di questo assolo impetuoso e sentito è l’attore. Mai smetteremo di ribadirlo: anagramma di teatro, l’attore è quella presenza sciamanica che dà vita alla forma, anche oltre la propria cognizione, innescando così (quando va bene, come in questo caso) la macchina dell’immaginazione creativa. È così in questo monologo a più voci e presenze, nel nero d’un palco sgombro, in cui è il corpo a costruire compiutamente lo spazio, le sue vie di fuga.
Carta si fa istrione, interprete, imbonitore: usa una lingua grumosa, ispida e liquida al contempo, di parole che il pubblico labronico mal afferra, eppure comprende, accoglie. Slitta fluido di carattere in carattere, tra generi ed età, quest’attore multiforme, naturale, mai naturalistico: e si fa pupo, quando gioca al rialzo e aggredisce il proscenio, calcando il piede sulla panca, unica suppellettile nei paraggi.
U biunnu è lo strano del quartiere, sin da bimbo emarginato perché non come gli altri: non scuro, non lesto, non forte. Tutt’altra pasta il coetaneo cugino, scaltrissimo, a proprio agio negli usi e abusi d’un quartiere e un’età che sono tritacarne, specie coi non adatti. Eppure, tra i due c’è un affetto incrollabile quanto asimmetrico: d’ammirazione stupita, in un senso, di rabbiosa e didattica solidarietà, nell’altro. Il testo di Rondinelli è spartito ideale per il metamorfismo di Carta, diretto ispiratore della pièce: non gli si può dar torto, ché ogni attore vorrebbe poter svariare d’intenzioni ed energie, tra impennate furiose e dilatazioni patetiche, come in questo caso. Sufficienti la voce e il volto a segnare i passaggi, condurre il pubblico, divertito e attento, nella vicenda d’amore e morte dei due ragazzi di vita palermitana.
Si diceva dell’attore come tutto teatrale: è così in questa prova che ci ricorda, per abilità, lingua (da toscani, ci perdiamo la minuziosa caratterizzazione dialettale) e vocazione polifonica, l’Antropolaroid di Tindaro Granata e, per il felice quadro d’insieme, l’Italia-Brasile 3-2 di Davide Enia, assoli significativi d’una scena sicula che non s’esaurisce in Emma Dante.
Poco importa se la storia è un filo prevedibile, così come la coloritura moralistica: da sempre diciamo che la trama non conta ed è così che ci troviamo ad applaudire convinti, assieme a tutto il caparbissimo Teatro della Brigata.