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Cantico e sregolatezza

Sguardazzo/recensione di "Cantico dei cantici"

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Cosa: Cantico dei cantici
Chi: Roberto Latini
Dove: Buti (PI), Teatro Francesco di Bartolo
Quando: 12/12/2018
Per quanto: 70 minuti

«Cos’è il genio?»
La risposta sorge spontanea, citando, non ce ne vergogniamo, il primo
Amici miei, quello con Duilio Del Prete. Ogniqualvolta che vediamo Roberto Latini ce lo chiediamo, pure pentendocene: non di veder lui, ma di un’etichetta che, sottolineandone l’innegabile eccellenza d’artista, ci pare poco appropriata. Ingiusta giacché banalizzante, per lui come per qualsiasi collega, contemporaneo o meno, tacciato di medesima colpa. E l’accoglienza entusiasta di questo Cantico presso Buti, in un teatro invero avvezzo ai grandi, ci propone con violenza l’interrogativo sulla sensatezza generale dell’epiteto orecchiato qua e là nel foyer.

Latini si confronta con un capolavoro della letteratura, religiosa e amorosa, autentico classico, sovente abusato in e da improvvide citazioni. L’origine del testo, misteriosa, mitica, è ideale per il taglio latiniano, fusionale, abrasivo, intenso. Già coi Giganti pirandelliani (capolavoro per noi, non per altri) e con la macchina scespiriana di Heiner Müller (Fortinbrasmaschine), l’artista applicava alla sorgente testuale una tecnica di riversamento nella voce e nel corpo d’attore. Del contesto tutto si perdono dettagli, contorni, caratteri, per una focalizzazione ossessiva, disperata e al contempo cosciente, sul magma poetico. Una risolutissima e paradossale risalita allo spirito primo, alla poesia (nell’etimo ποιέω: produrre, fare, creare) quale impulso fisiologico del dire, che in teatro diviene fare.

Ne esce un assolo, come sempre, abbacinante: Latini attende il pubblico disteso sulla panchina verde al centro, clochard androgino, cuffie ingombranti alle orecchie, trucco ostentato. Lo spazio è definito dal fondale a tendaggio con dolci piegature; dinanzi, una cornice a quadro, quasi finestra: l’inquietante presenza resa dall’artista diverrà qui radiofonico disc-jockey (un’insegna On Air a tratti prende luce) offrendo una dicitura del testo polifonica, tonitruante, persino parodica. L’incipit è segnato da un azzeccato gioco scenico: il personaggio si alza e, con lui, una musica di sorda sonorità; riconosciamo Every You Every Me, ma temiamo il guasto acustico: è, invece, ingegnoso effetto di soggettiva, ché quando la figura si cala le cuffie, il volume esplode nella sua elettrica potenza. 
Siamo nella sua testa: per assistere all’accavallarsi di parole, versi, emozioni. Si alza, guadagna il quadro, scandisce frasi, seziona il testo in arbitrarissimi segmenti: non compiutezza, ma flusso, ché l’amore, ogni amore, è scorrimento, superiore e ulteriore, soprano agli uomini che, forse, son soltanto i suoi pupi, incarnazione giocosa del suo tumultuare.

Latini dà fondo alle riserve del suo dire: ora pomposo, ora femmineo, maliziosa silhouette dalla schiena nuda, ora declamatore lancinante, appassionato. Cifra sua è l’indefinizione, intima essenza del teatro, arte del flusso, contrapposta alla forma inerte, alla staticità dell’opera conchiusa. Nulla importa se vi sia o meno testo a monte (non lo intendono i cocciuti assertori dell’o performance o morte!, poverini), ché la potenza si può solo sprigionare nel qui e ora del corpo-capro attoriale, del suo farsi tramite, non del testo, ma del senso.

In ciò, pure questo Cantico è capo-di-lavoro. Però.
Però, e non ce ne vogliate, a questo nostro sguardo, sempre che abbia ragion d’essere, arriviamo gettando cuore e occhi e mente oltre l’ostacolo, nello sforzato sintonizzarci sulle frequenze d’un artista che ammiriamo, e un poco abbiamo praticato da strani spettatori (ossia critici). Balena, d’altronde, il sospetto d’una tecnica collaudata, e ci chiediamo, senza aver risposte pronte: serve di più il Cantico a Latini, o viceversa?
Con questo dubbio, per niente scontato, pure noi applaudiamo il genio.

VERDETTAZZO

Perché: Sì, oppure no
Se fosse... un oggetto sarebbe... uno specchio

Locandina dello spettacolo



Titolo: Cantico dei cantici

adattamento e regia Roberto Latini
musiche e suoni Gianluca Misiti
luci e tecnica Max Mugnai 
con Roberto Latini
organizzazione Nicole Arbelli
foto Fabio Lovino
produzione Fortebraccio Teatro
con il contributo di MiBACT Regione Emilia-Romagna


Il Cantico dei Cantici è uno dei testi più antichi di tutte le letterature. Pervaso di dolcezza e accudimento, di profumi e immaginazioni, è uno dei più importanti, forse uno dei più misteriosi; un inno alla bellezza, insieme timida e reclamante, un bolero tra ascolto e relazione, astrazioni e concretezza, un balsamo per corpo e spirito. Se lo si legge senza riferimenti religiosi e interpretativi, smettendo possibili altre chiavi di lettura, rinunciando a parallelismi, quasi incoscientemente, se lo si dice senza pretesa di cercare altri significati, se si prova a non far caso a chi è che parla, ma solo a quel che dice, senza badare a quale sia la divisione dei capitoli, le parti, se si prova a stare nel suo movimento interno, nella sua sospensione, può apparirci all’improvviso, col suo profumo, come in una dimensione onirica, non di sogno, ma di quel mondo, forse parallelo, forse precedente, dove i sogni e le parole ci scelgono e accompagnano. Non ho tradotto alla lettera le parole, sebbene abbia cercato di rimanervi il più fedele possibile. Ho tradotto alla lettera la sensazione, il sentimento, che mi ha da sempre procurato leggere queste pagine. Ho cercato di assecondarne il tempo, tempo del respiro, della voce e le sue temperature. Ho cercato di non trattenere le parole, per poterle dire, di andarle poi a cercare in giro per il corpo, di averle lì nei pressi, addosso, intorno; ho provato a camminarci accanto, a prendergli la mano, ho chiuso gli occhi e, senza peso, a dormirci insieme. “vi prego, non svegliate il mio amore che dorme”  R. L.

Igor Vazzaz
Toscofriulano, rockstar egonauta e maestro di vita, si occupa di teatro, sport, musica, enogastronomia. Scrive, suona, insegna, disimpara e, talvolta, pubblica libri o dischi. Il suo cane è pazzo.