«Cos’è il genio?»
La risposta sorge spontanea, citando, non ce ne vergogniamo, il primo Amici miei, quello con Duilio Del Prete. Ogniqualvolta che vediamo Roberto Latini ce lo chiediamo, pure pentendocene: non di veder lui, ma di un’etichetta che, sottolineandone l’innegabile eccellenza d’artista, ci pare poco appropriata. Ingiusta giacché banalizzante, per lui come per qualsiasi collega, contemporaneo o meno, tacciato di medesima colpa. E l’accoglienza entusiasta di questo Cantico presso Buti, in un teatro invero avvezzo ai grandi, ci propone con violenza l’interrogativo sulla sensatezza generale dell’epiteto orecchiato qua e là nel foyer.
Latini si confronta con un capolavoro della letteratura, religiosa e amorosa, autentico classico, sovente abusato in e da improvvide citazioni. L’origine del testo, misteriosa, mitica, è ideale per il taglio latiniano, fusionale, abrasivo, intenso. Già coi Giganti pirandelliani (capolavoro per noi, non per altri) e con la macchina scespiriana di Heiner Müller (Fortinbrasmaschine), l’artista applicava alla sorgente testuale una tecnica di riversamento nella voce e nel corpo d’attore. Del contesto tutto si perdono dettagli, contorni, caratteri, per una focalizzazione ossessiva, disperata e al contempo cosciente, sul magma poetico. Una risolutissima e paradossale risalita allo spirito primo, alla poesia (nell’etimo ποιέω: produrre, fare, creare) quale impulso fisiologico del dire, che in teatro diviene fare.
Ne esce un assolo, come sempre, abbacinante: Latini attende il pubblico disteso sulla panchina verde al centro, clochard androgino, cuffie ingombranti alle orecchie, trucco ostentato. Lo spazio è definito dal fondale a tendaggio con dolci piegature; dinanzi, una cornice a quadro, quasi finestra: l’inquietante presenza resa dall’artista diverrà qui radiofonico disc-jockey (un’insegna On Air a tratti prende luce) offrendo una dicitura del testo polifonica, tonitruante, persino parodica. L’incipit è segnato da un azzeccato gioco scenico: il personaggio si alza e, con lui, una musica di sorda sonorità; riconosciamo Every You Every Me, ma temiamo il guasto acustico: è, invece, ingegnoso effetto di soggettiva, ché quando la figura si cala le cuffie, il volume esplode nella sua elettrica potenza.
Siamo nella sua testa: per assistere all’accavallarsi di parole, versi, emozioni. Si alza, guadagna il quadro, scandisce frasi, seziona il testo in arbitrarissimi segmenti: non compiutezza, ma flusso, ché l’amore, ogni amore, è scorrimento, superiore e ulteriore, soprano agli uomini che, forse, son soltanto i suoi pupi, incarnazione giocosa del suo tumultuare.
Latini dà fondo alle riserve del suo dire: ora pomposo, ora femmineo, maliziosa silhouette dalla schiena nuda, ora declamatore lancinante, appassionato. Cifra sua è l’indefinizione, intima essenza del teatro, arte del flusso, contrapposta alla forma inerte, alla staticità dell’opera conchiusa. Nulla importa se vi sia o meno testo a monte (non lo intendono i cocciuti assertori dell’o performance o morte!, poverini), ché la potenza si può solo sprigionare nel qui e ora del corpo-capro attoriale, del suo farsi tramite, non del testo, ma del senso.
In ciò, pure questo Cantico è capo-di-lavoro. Però.
Però, e non ce ne vogliate, a questo nostro sguardo, sempre che abbia ragion d’essere, arriviamo gettando cuore e occhi e mente oltre l’ostacolo, nello sforzato sintonizzarci sulle frequenze d’un artista che ammiriamo, e un poco abbiamo praticato da strani spettatori (ossia critici). Balena, d’altronde, il sospetto d’una tecnica collaudata, e ci chiediamo, senza aver risposte pronte: serve di più il Cantico a Latini, o viceversa?
Con questo dubbio, per niente scontato, pure noi applaudiamo il genio.