«Oops! I did it again!» Britney Spears? No: Rosetta Cucchi. Alla regista pesarese piacciono le trovate inedite, dirompenti: ricordiamo L’elisir d’amore stile Saranno famosi della passata stagione e la conferma si ha con un Don Giovanni newyorchese. Libertino rockstar, Leporello agente, Elvira e Zerlina groupies. Don Ottavio, mani in tasca, il più azzeccato: l’ottimo Francesco Marsiglia valorizza un personaggio che, di solito, funziona solo in contrasto al seduttore. Yolanda Auyanet è una Donna Anna poco attraente che, col fidanzato, compone la coppia borghese più agée degli altri caratteri. Elvira – giovane e potente la vocalità di Raffaella Lupinacci – è schiacciata nel ruolo di maniaca fan sotto psicofarmaci; buona idea per l’instabilità del personaggio, depotenziandone però lo snodo fondamentale, la guarigione dalla passione per il libertino dopo la spietata analisi di sé. Bravo Roberto De Candia, Leporello con reflex al collo a testimoniare le prodezze del padrone. Infine, il Don Giovanni di Alessandro Luongo: passionale al punto di compromettere un poco il tempo (evidente in Fin ch’han dal vino), ma comunque di grande grinta ed efficacia. La ferita riportata nell’iniziale uccisione del Commendatore gli arrossa la camicia per tutto lo spettacolo; solo alla fine un colpo di scena spiega il motivo: egli è morto con la vittima; i due corpi giacciono, coperti da un telo, sulla prima scena del crimine.
Da una regista d’importante formazione musicale non ci aspettiamo la scelta d’inizio: durante l’Ouverture si vede Anna aggredita da Don Giovanni su un taxi giallo. Rassegnati all’invasione scenica del preludio, chiediamo: così necessario sbattere le portiere della vettura? Nei panni del direttore Aldo Sisillo, le avremmo saldate alla carrozzeria durante la notte. Inoltre, dal primo Novecento con l’affermazione della psicanalisi, è diventato palese che Anna possa essersi concessa a Don Giovanni inventando lo stupro salva-onore. Qui ha origine, inoltre, una delle prime incongruenze che trapuntano l’allestimento: se Leporello ha fotografato il corteggiamento e l’amplesso, perché rimproverare al padrone le «due imprese leggiadre: sforzar la figlia ed ammazzare il padre»?. Perché chiede «cos’ha voluto?» la donna? Le domande non quadrano, avendo appena assistito all’unione consensuale dei due.
Ci si può entusiasmare per la portata “innovativa” dell’ambientazione metropolitana, soprassedendo sulle storture: il rischio concreto, però, è di sentirsi presi in giro. Per quale motivo Leporello si rivolge alla statua del Commendatore, se sta parlando a una fotografia? Ci si aspetta che il pubblico non vi faccia caso o si spera che sia complice a tal punto? Ci viene chiesto di assecondare un capriccio che la regia non porta sino in fondo. È relativamente facile pensare di ambientare Don Giovanni a New York, ma la traslazione deve reggere, altrimenti è puro e sterile esercizio.
La caratteristica del melodramma è di essere un genere a suo modo convenzionale, rigido. Si possono ignorare le didascalie, ma battute, situazioni e tempi sono prestabiliti: anche in tali condizioni la sfida registica resta intrigante. Allora, perché occuparsi di lirica se certa rigidità sta stretta tanto da ignorarla? Se Rosetta Cucchi desidera la sfida, si dimostri davvero superiore all’opera messa in scena tagliandola, riadattandola alle proprie trovate: che non ignori gli ostacoli, sperando che il pubblico supplisca al lavoro che lei non sa portare a termine.