Domina il buio, un’oscurità ben oltre il piano fisico, bensì metafora d’una mancanza di luce che affligge ogni personaggio, intrappolato nella propria solitudine, il proprio silenzio, la propria condanna. Cani morti è l’ennesimo, estenuante ed estenuato testo brachilogico di Jon Fosse, autore norvegese e voce tra le più frequentate della drammaturgia internazionale contemporanea (ne ricordiamo Winter, diretto da Oskaras Koršunovas). A portare in scena questa pièce a suo modo estrema è Carmelo Alù, per un allestimento selezionato nel progetto Davanti al pubblico, promosso dal Metastasio con la supervisione di Massimiliano Civica: anteprime a Castiglioncello lo scorso luglio, e successiva, giusta collocazione nel cartellone invernale del maggior polo toscano, in quello spazio peculiare e apprezzabilissimo che è il Magnolfi, vocato tanto alle novità quanto alle retrospettive d’artista.
Alù prende, così, il testo fossiano per restituirlo in un’atmosfera di rarefazione assoluta. L’ambiente, quasi metafisico, è abitato da un tavolo e poco più: accoglie i dialoghi secchi, affilati, di personaggi scientemente senza nome, in un clima di strisciante, sommessa tensione. Un figlio e una madre, e la mancanza dell’amato animale domestico: «Tornerà», sentenzia la donna, minimizzando la preoccupazione del ragazzo, apatico, come svuotato. Giunge un amico, non lo si vedeva da anni, ma la reazione è indifferente: neanche si ferma, neanche un caffè. La stessa recitazione, marcatura intenzionale da parte della regia, è improntata alla medesima, ostentata indolenza, un non curarsi sospetto, malato, anzi inguaribile.
Notevole che la sola luce significante, sotto il profilo scenico, sia quella d’una finestra, resa, però, da un riflettore a destra del proscenio, in bella vista: le alette sagomatrici sono, in realtà (anzi: in finzione), gli scuri da dischiudere per far filtrare i fasci luminosi a lambire parte del palco. E notevole che tale illuminazione, dichiaratamente (brechtianamente) posticcia, sortisca un effetto d’accecamento per chi vi s’avvicina, anziché supportarne la vista, cecità che è condanna per quest’umanità annoiata.
Angoscia e geometrie, nei movimenti come nelle parole, gli ingredienti d’un giallo anomalo, algido e rappreso, la cui fine in tragedia e sangue, ovviamente evocati e non agiti, è logica, prevedibile conseguenza. Non v’è suspance: sia l’assassino (del cane) sia la reazione all’atto violento risultano scontati; non è sulla storia che ci vuol far riflettere Fosse, e in questo Alù ci sembra rispettoso del mandato autorale.
La tensione intride, piuttosto, i rapporti di forza che ogni scarnificatissimo dialogo traccia, nelle minute modificazioni che ogni scambio di battute dovrebbe tradurre scenicamente. Una partita di scacchi, tesa, acuminata: in questo senso, pensiamo a certi efficacissimi Pinter visti negli anni passati.
Il risultato, però, ci pare qui mancare il segno: la snervante, sfibrata dilatazione fa emergere, a nostro avviso, più la distanza tra palco e platea che quella, raggelata, tra i protagonisti. L’impressione è che Alù, per non rischiare di tradire il testo, abbia optato per un lavoro “di fioretto” che avrebbe necessitato di qualcosa in più per penetrare compiutamente nelle maglie d’una drammaturgia insidiosissima quanto (e perché) essenziale. Pure la giovinezza della compagnia ci pare, in questo caso, limite più che ricchezza: con un testo che ha nel togliere la propria matrice, attori più esperti, abituati a lavorare con e nei silenzi, a gestualità minime, trattenute, avrebbero magari garantito una maggior prossimità allo scopo che (ci pare) fosse prefissato.