A pochi giorni dal debutto milanese, arriva a Prato Queen Lear, «tragicommedia musicale en travesti» del collettivo Nina’s Drag Queens. L’evidente matrice scespiriana è filtrata dalla scrittura di Claire Dowie. Si aggiungono tacchi e parrucche, ma allo stesso tempo la trasposizione lima la drammaturgia: non più castelli, eserciti e guerre, solo le relazioni familiari. Lea Rossi è un’immigrata italiana in Inghilterra che vuole andare in pensione e affidare il suo negozio alle figlie: se Regana e Gonerilla si cimentano in una gara a dichiarare il loro amore, Cordelia non vuole partecipare al gioco. Viene ripudiata e restano solo le due maggiori a curarsi della madre: se in Shakespeare è presente un’eredità concreta e ingente, qui si gioca tutto sui sentimenti. Lea finisce in ospizio, dopo essere stata spogliata di qualsiasi vezzo e dignità: solo il ritorno di Cordelia risolve il dramma, seppur troppo tardi. Parallelamente alla riduzione intimistica, il testo viene declinato scenicamente secondo una poetica del travestitismo con una galleria di topoi, immagini, significati e stilemi condivisi con il pubblico. Così facendo, le Nina’s propongono un’artefatta tradizione di narrazioni drag e – merito supremo – nel farlo non utilizzano il testo archetipico come stampella, ma anzi lo arricchiscono di nuovi significati.
In scena cinque attori con una doppia maschera: oltre a quella del personaggio, la prima e più evidente è quella della drag queen, con caratteri riconoscibili (una sorta di commedia dell’arte ancora tutta da codificare). Sax Nicosia è Lea, drag anziana ed elegante come una diva in pensione: utilizza i tratti marcati per un’espressività evidente, in contrasto con l’intensità del volto immobile con cui mostra l’alienazione della casa di riposo. Le figlie maggiori (Lorenzo Piccolo e Ulisse Romanò) si rifanno invece a un tipo di travestitismo più ammiccante, trucco vistoso e guardaroba meno sofisticato di quello della madre. Alessio Calciolari si alterna tra il ruolo della dolce figlia Cordelia (una drag senza componente erotica) e l’infermiere rapper della casa di riposo. Completa il cast Gianluca Di Lauro (Kent), amica storica di Lea, allontanata per aver preso le difese di Cordelia, ma ritornata sotto mentite spoglie: con la protagonista incarna il mito dell’amicizia tra anziane signore.
Di fronte al fondale su cui si proiettano luci e riflessi, si stagliano i pochi elementi che creano le diverse ambientazioni, in una progressione discendente dall’iniziale bottega di Lea – ricca di elementi e colori caldi – sino al centro anziani, freddo e delineato da pochi neon.
Ulteriore aspetto caratterizzante del lavoro è la colonna sonora, composta da diversi elementi: dal lip-sync di alcune battute tratte da vecchi film (come Sunset Boulevard), alle citazioni di Rigoletto, sino alle musiche inedite di Enrico Melozzi.
Di certo l’allestimento non ci pare destinato a impremersi nella memoria per la concezione o per l’esecuzione musicale, quanto, piuttosto, per l’applicazione di una narrazione differente all’opera di Shakespeare: questo da solo, però, non basta a supportare i 110 minuti senza intervallo, per i quali servirebbe una visione scenica – non solo poetica – assai più potente e identitaria. Un assioma della poetica queer è che l’autentica espressione di sé sia prioritaria a istanze formali, ma in teatro il come è sempre più importante del cosa: in questo nodo sta la debolezza di Queen Lear, giacché, talvolta, ciò che avviene in scena sembrerebbe concentrato sul performer, più che proiettato verso il pubblico. Ciononostante, con la certezza che il rodaggio migliorerà notevolmente il lavoro, ci uniamo agli applausi entusiasti del pubblico del Fabbricone.