Il sipario si apre su una scena spoglia, cupa, carica di pesantezza. Lo starec Zosima (Paolo Lorima), affaticato e invecchiato dalla malattia, seduto al centro del palco, sembra occupare tutto lo spazio disponibile con la solennità della sua scura figura. Un giovane, anch’esso in abito da monaco, si muove nervosamente attorno a lui, preoccupato. È Aleksej (Pavel Zelinskiy), in attesa del padre e degli altri fratelli. La vicenda dei Karamazov prende le mosse da una disastrosa riunione di famiglia alla presenza del già citato starec, chiamato a giudicare e consigliare: Dimitrij (Laurence Mazzoni), non più innamorato di Katerina Ivanovna (Giulia Galiani), conosciuta ai tempi in cui prestava servizio nell’esercito, è ora follemente invaghito di un’altra donna, Grušenka (Alice Giroldini). In questo suo turbolento e passionale amore si trova ad avere il padre Fëdor (Glauco Mauri) come rivale. Una schermaglia a più voci cui prendono parte pure il secondogenito Ivàn (Roberto Sturno), cinico intellettuale, e Smerdjakov (Luca Terracciano), quarto (illegittimo) Karamazov.
Chi si fosse avvicinato a I Fratelli Karamazov con l’aspettativa di vedere sul palco, in carne e ossa, una fedele trasposizione dell’omonimo romanzo, l’equivalente teatrale di uno sceneggiato in due puntate, rimarrebbe certo deluso: le mille e più pagine non potrebbero esaurirsi entro le due ore di spettacolo; ma chi, invece, vi abbia cercato tracce della poetica di Dostoevskij, fatta di polifonia e ambivalenze, o «una comédie humaine alla russa», per dirlo con le parole del regista Matteo Tarasco, allora, ecco che con l’adattamento a opera dello stesso regista e di Mauri, ha colto nel segno.
Tonalità neutre, una scenografia a pannelli scorrevoli che rende rapidi e puliti i cambi di scena, pochi elementi significativi e funzionali alla narrazione e, infine, una componente musicale mai invadente, votata al riempimento dei vuoti e alla drammatizzazione di brevi scambi di battute, fanno da cornice all’andirivieni di questi eroi ed eroine imperfetti, inquieti e volubili, vera e propria ossatura portante cui si affida l’intera messinscena.
Un cast esperto, indubbiamente all’altezza, in cui spicca la coppia Mauri-Sturno, per la terza volta alle prese con un soggetto dostoevskiano e che già avevamo avuto modo di apprezzare (qui lo sguardazzo), è chiamato a dar voce ai conflitti che animano la narrazione, sviscerare l’animo e abitare il guscio dei personaggi da interpretare, senza cadere nel caricaturale. Tra dialoghi serrati e monologhi (ampio risalto è dato alla parte sul Grande Inquisitore), si scontrano sentimenti e convinzioni: ora l’amore, quello passionale di Dimitrij e Fedor, quello pietoso di Katerina, ora la fede di Alekseij e il rifiuto della stessa da parte di Ivan.
«Ma Dio… Dio esiste?» domanda ricorrente, che apre l’indagine, necessaria e conseguente all’affermare di Ivan che se Dio non esiste, allora vale tutto, sul libero arbitrio.
Se il parricidio è per Alekseij e Dimitrij risolutivo, l’inizio di qualcosa d’altro, per Ivàn e Smerdjakov è devastante rottura.
Sarà infine Ivàn, distrutto dalla febbre cerebrale e dal suicidio del fratello, ormai delirante, a rompere il sottile vetro tra palco e platea, «e tu cos’hai da guardare?» chiede al Diavolo, seduto tra noi: non più osservatori pure noi colpevoli, pure noi Karamazov.
Uno spettacolo da manuale, che non delude le aspettative, ma che forse nemmeno meraviglia, salutato dal pubblico della Pergola con un caloroso e prolungato applauso.