Si nota, nelle ultime stagioni, una crescente predilezione per i dittici e la stagione lirica del Teatro Verdi di Pisa si chiude proprio con una coppia di atti unici, a confermare la tendenza. Questo tipo di proposta permette ai direttori artistici di mettere in dialogo autori, temi e stili, offrendo al pubblico uno spettacolo vario e con titoli poco frequentati. È il caso di Edipo re, ultima opera di Ruggero Leoncavallo, che incontra La voix humaine, il monologo di Jean Cocteau messo in musica da Francis Poulenc.
Il primo titolo è un doppio tributo: non solo per il centenario della morte del compositore, ma anche per il baritono pisano Titta Ruffo (al quale il Verdi ha dedicato il ridotto davanti ai palchi) per cui questo atto unico fu scritto da Leoncavallo. L’allestimento in forma semiscenica ben si adatta all’agilità della partitura che, pur ripercorrendo passo per passo la tragedia di Sofocle, procede spedito e inesorabile verso l’agnizione finale.
Protagonista dell’allestimento è il lucchese Giuseppe Altomare, ancora una volta a proprio agio nel vestire i panni del potere (lo ricordiamo, nello stesso teatro, come Macbeth e, altrove, come Francesco in I Masnadieri). Sarà sempre lui il fulcro di un palco spoglio: ad eccezione di un trono, coro e cantanti in borghese creano lo spazio mediante l’azione. Sulla sinistra, sempre in luce, incombe la presenza del costume originale indossato da Ruffo per la prima dell’opera a Chicago, nel 1920.
Scritto una decina d’anni più tardi rispetto all’Edipo, La voix humaine di Poulenc fissa nel pentagramma una lettura della piece di Cocteau diventata una pietra miliare dell’interpretazione teatral-cinematografica e, grazie a quest’opera, anche musicale. Nomi illustri di dive di ogni tempo si sono cimentati con la disperazione di Elle, donna sola che viene abbandonata mediante una conversazione telefonica. In questa occasione, la protagonista è Anna Caterina Antonacci, soprano di affermata esperienza e amatissima dal pubblico (seppur estranea a un certo star-system della lirica). Grandi applausi per lei al termine di un’interpretazione magistrale, in cui ha unito la solida e sfumata espressività vocale a un evidente savoir-faire scenico.
La regia di questa seconda parte (importata da Bologna) è firmata Emma Dante, con la vicenda svolta in una sorta di ospedale per il mal d’amore, che si rivela gradualmente: quell’ambiente che prima potrebbe sembrare una camera da letto rosa, pian piano si spoglia e si riduce all’essenziale, fino a somigliare a una camera imbottita da ospedale psichiatrico. Antonacci in scena è affiancata da sei ballerini/attori, a interpretare il personale medico e le visioni di un uomo e di una donna che tormentano la protagonista. L’evoluzione psicologica della protagonista abbandonata procede verso la presa di coscienza scivolando dalla paranoia alla disperazione, dalla tendenza suicida ai ripetuti tentativi di mostrare serenità nei confronti dell’uomo che la sta lasciando. Emma Dante evidenzia il percorso verso la follia, portandolo all’estremo di una sorta di eutanasia conclusiva: il testo di Cocteau ha un finale aperto, in cui la protagonista lascia solo cadere la cornetta; la regista, introducendo la morte, riporta l’atto unico in una tradizione propriamente melodrammatica, di cui la morte (femminile) per pazzia è un topos spesso frequentato.
Un pubblico entusiasta di queste nuove scoperte lascia ben sperare che anche la prossima stagione possa essere ricca di appuntamenti in cui (ri)scoprire tesori nascosti o perduti.