Avevamo intravisto una prima, rapida e tagliente porzione di Thanks for vaselina a Lari, nell’andito sottostante il circolo ARCI che, durante il festival Collinarea, è approdo obbligato per teatranti e spettatori. Carrozzeria Orfeo, compagnia di stilemi settentrionali e humour viperino, aveva ben impressionato con quell’abbozzo di drammaturgia schermistica, irta di spigoli e situazioni improbabili a salvare niente e nessuno. La ritroviamo, quindi, a testo conchiuso, dopo un annetto buono di repliche, ovviamente senza la continuità auspicabile nell’interesse e di artisti e di spettatori, ma queste son altre considerazioni. Gremita è la sala dell’Excelsior di Reggello, nel freddo entroterra valdarnino che separa Firenze da Arezzo: spettacolo atteso, anche in virtù del fatto che i carrozzieri son qui di casa, avendo instaurato un rapporto continuativo e fecondo con l’entusiasta gestione di questo teatro a mezzo servizio (la sala funge anche da cinema).
Riconosciamo subito l’interno spartano, malconcio, d’un comune appartamento ospitante due armadi di stoffa con cerniera riciclati a serre per coltivar marijuana. Fil (Gabriele Di Luca, autore del testo) e Charlie (Massimiliano Setti) compongono la strana coppia di velleitari produttori-trafficanti; cinico e spietato l’uno, velleitario e idealista l’altro, comiche iperboli di riconoscibili modelli cinematografici: retroscena, un “colpo” fallito cui rimediare. Stanza e storia si popolano presto: Beatrice Schiros è la madre “snaturata” di Fil, accattona mezza tossica non priva di sentimenti, Francesca Turrini la corpulenta e infantile sprovveduta cui sarà destinata la vaselina del titolo, in una parodia anale del cavallo troiano declinato al narcotraffico. Ultimo tocco surreale, Annalisa (Ciro Masella), padre (!) di Fil, fuggito in Messico anni addietro, ritornato a sistemar varie cose in sospeso, compresi i sentimenti traditi del figlio che, ovvio, non ne vuol sapere.
Ne risulta un affresco dolce-cinico d’umanità alla deriva, rimasticamenti tarantiniani e slanci sentimentali tra Ken Loach e Almodovar. Efficace la comica caratterizzazione lumbard (brava Schiros a rovesciare in graffio grintoso la precaria condizione vocale): manca forse un quid quando si prova invece a slittare (e fare) sul serio. La tirata rabelaisiana di Fil, coprolalico effluvio d’orina purificatoria sui vuoti pneumatici d’un cosmo votato al dolore, non pare dotata dell’aderenza desiderata, sfumando sulla scorta delle divertite trovate precedenti là dove dovrebbe incidersi nello stomaco dello spettatore a segnarne in profondo la visione. Giusto annichilire ogni speranza e mirar dritti al cuore, ma vi è un che di telefonato: Fil e Charlie (anglofonia sciente e ostentata: prassi agghiacciante gergale del milanese contemporaneo) sono macchiette mal coniugabili con toni da new angry generation; troppo comici per Sarah Kane, troppo seri per risultar demenziali.
L’inculata morbida cui accennano le aguzze note di regia (come il sottotitolo A tutti i parenti delle vittime e alle vittime dei parenti), suona edu(l)c(or)ata, al pari della presunta scorrettezza politica, vezzo d’una drammaturgia di sapiente calibro, quando, invece, meriterebbe (e potrebbe) d’esser assai più selvaggia. Sorpresa surreale l’articolato “concerto” di tazzine da caffé a metà recita: inserto di rara efficacia.
Nel complesso, una discreta commedia acida, rabbiosa, divertita e onesta, che merita in ogni caso il caldo applauso tributatole.