«Meno male è durato 50 minuti e non 150» ha esordito una giovane donna al termine di Winter, nell’ampio foyer post- industriale del Fabbricone pratese . Potremmo semplicemente concordare con tale affermazione e concludere qui il nostro giudizio in merito, ma così facendo daremmo al nostro lettore la stessa sensazione ottenuta dallo spettatore pratese: inconsistenza. Non vogliamo essere drastici, benché lo scontento generale al termine della pièce è tangibile; forse il motivo è rintracciabile nelle grandi aspettative che il pubblico ripone nel regista Oskaras Korsunovas, invidiabile maestro di memorabili regie, un esempio fra tutti, il bell’allestimento di Miranda andato in scena a Lucca due anni fa.
All’ingresso in sala, la scena è aperta, interamente connotata dal bianco, attraverso teli e drappeggi; in penombra, accartocciata su una panchina, Ruta Papartyte. La donna inizia immediatamente a inveire contro qualcuno nel pubblico, sfondando con poca convinzione la quarta parete a suon di turpiloqui. Un leggero cambiamento si ha quando Marco Brinzi si alza dalla platea e, rispondendo, le va incontro. Da qui in poi i due non si separeranno da questo habitat polivalente con elementi da esterno (panchine) e da interno (un insieme di lenzuola a simulacro di un letto nuziale). Lei, una recitazione che ricorda la spensieratezza e la frivolezza della Marylin Monroe degli esordi; lui, rigido e ingessato come un caporale dell’esercito. I ruoli, poi, si invertono: stavolta è lui a cercare lei nel pubblico. La paura che il pezzo possa riprendere dall’inizio è palpabile, come l’odore delle arance ingiustamente triturate con mani e piedi durante la scena. Ecco, Arance è un titolo molto più affine alla realizzazione scenica di Winter di Jon Fosse, proprio perché oltre alla presenza in scena degli agrumi, del medesimo colore sono pure le luci utilizzate, che hanno per sorgente lampioni dalla forma sferica.
Si recita con i piedi, non è un nostro eufemismo cattivo come i più maliziosi potrebbero pensare, ma un dato oggettivo: Papartyte utilizza i propri con abilità prensili sia per gettare e afferrare oggetti, sia per espandere il proprio corpo, come quando, rispondendo alle domande di Brinzi, divengono estensioni della propria bocca. Il culmine si ha quando, prima lei e poi lui mangiano delle banconote, che a noi rassomigliano ai soldi del nostro biglietto. Verrebbe da aggiungere: «Li mangi una volta, ma non li rimangi più».
In questa nuova performance i tratti salienti del regista perdono efficacia, molto probabilmente a causa di una scelta che altera sia il lavoro corporeo con gli attori sia l’operazione sul testo, anch’esso di matrice nordica. L’intero assetto scenico è costruito su un linguaggio “straniero”: è la lingua del corpo, dei gesti, delle espressioni che nel momento stesso in cui vengono deturpate dalla lingua italiana perdono in toto la loro efficacia. Lasciamo al regista lituano la forza di creare e allestire nella propria lingua e con i propri mezzi espressivi, senza dover per forza ricorrere all’italianizzazione (scenica e non solo) dei propri mezzi. La grande pecca di questo Inverno (più che Winter) è la sua natura ibrida, il suo trovarsi in un incolpevole limbo tra una regia pensata in un modo (spirito nordico) e costretta a vivere in un altro. Medi(t)azione italiana.