Si è da poco aperta la rassegna Wonder Women, che vanta un programma fittissimo: in meno di due mesi ben tredici appuntamenti, distribuiti negli spazi di SPAM! (Porcari), Artè (Capannori) e del Teatro San Girolamo (Lucca). Attraverso questa rassegna, ALDES si propone di mettere in luce artiste non particolarmente note che meritano una maggiore attenzione: idea estremamente interessante, nata dalla consapevolezza dei problemi connaturati in una società ancora visceralmente maschilista.
Questo il contesto per Sketches on Ligeti, uno spettacolo di musica e danza che dà corpo al primo libro degli études di György Ligeti, composti tra gli anni Ottanta e i primi 2000. Cathy Krier suona il pianoforte avvolta in un semplice abito nero che copre interamente il corpo, i piedi scalzi sui pedali. Elisabeth Schilling, vestita di bianco, il busto per metà scoperto, danza, anche lei a piedi nudi. Strutture ritmico-melodiche sono sovrapposte per creare un sistema musicale deliberatamente complesso, apparentemente confusionario eppure incredibilmente ordinato. La musica si interrompe regolarmente per segnalare l’inizio di un nuovo tema, con cui la danzatrice dialoga. La ricercatezza tanto della partitura sonora quanto di quella coreutica fanno sì che l’osservatore fatichi a ricordare la struttura dei diversi quadri, la cui potenziale chiarezza sfuma in una forma volutamente approssimata (si tratta di sketches, schizzi). Il primo tema è caratterizzato da movimenti di compressione e decompressione: il corpo è nervoso. Dopo il silenzio, l’anatomia muscolare sembra cambiare, il corpo si distende e allarga, poi cambia ancora, seguendo la direzione suggerita da Krier. Lo schioccare di un’articolazione, lo scricchiolio del pavimento ligneo, il respiro che si fa affannoso si intessono naturalmente in una trama che si definisce poco per volta: la texture, la struttura su cui si fonda la rappresentazione, è stabile, ma all’interno di questa rigidità uno spazio significativo è delegato all’improvvisazione, e si ha l’impressione che sia proprio questo a definire il senso della performance.
Confrontarsi con un corpo semiotico facendo uso di un linguaggio (verbale) che non gli è necessariamente consono crea di per sé un problema. Nel sottoporsi a un’esperienza estetica l’atteggiamento più costruttivo sta forse nel rinunciare temporaneamente al bisogno di interpretare. È la visione innocente, una sorta di sospensione del giudizio, a consentire l’accesso a una conoscenza che passi dalla comprensione emotiva prima che da quella razionale. Ironicamente, quante più parole si hanno per parlare di un’opera − quanto più “se ne capisce”, insomma − tanto meno riusciamo a lasciarci coinvolgere, a spogliarci del nostro fiero intellettualismo.
Trattandosi di un linguaggio cui siamo poco esposti, e che quindi non ci sembra di comprendere, durante la visione non pretendiamo di decodificare i gesti della danzatrice: cogliamo il corpo in tutta la sua complessità, fremente nella tensione tra un movimento e l’altro, apparentemente rilassato per un solo istante, pronto a reagire agli stimoli senza scivolare nell’automatismo della memoria muscolare. L’apparente mancanza di una chiave interpretativa permette di scoprire che l’unica interpretazione che valga la pena fare non attinge a una conoscenza verbale, bensì emotiva.
Riconoscendo la contraddizione, e, anzi, facendo leva su di essa, chiudiamo con le parole di un saggio del nostro tempo: «there are three kinds of intelligence: practical, emotional, and the actual kind, which is what I’m talking about» (qui il link per i curiosi).