Da anni I Sacchi di Sabbia riescono a incuriosirci, spiazzarci, divertirci, grazie a un eclettismo privo d’eguali nel panorama nazionale. Gli artisti anche più grandi, una volta individuata una propria cifra espressiva, vi restano fedeli col rischio di farsene ingabbiare: pensiamo, con tutto l’affetto, a Rezza, Latini, Paolini, per citare esempi disparati. E, in effetti, il paradosso dei lavori creativi sta nella ricerca di “uno stile”, salvo, poi, riuscire a liberarsene (lo dice Calvino in Un punto nello spazio, da Le cosmicomiche): in pochissimi riescono in un’impresa simile, già complessa per quanto concerne il primo segmento. La compagnia che fu tosco-partenopea ha, invece, saputo passare dalla piazza (Il Teatrino di San Ranieri) alla “camera” (Tragos), debordando poi tra deliri eroico-ortofrutticoli (Sandokan) e felicissime incursioni operistiche (Don Giovanni); s’aggiungano, infine, le ultime realizzazioni tra pop-up, radiofonia, maggi drammatici e le collaborazioni con Massimiliano Civica: se ne trarrà l’impressione d’una ricerca mai esausta, ma con le radici ben piantate nella più consapevole e verace cultura teatrica.
In quel di Prato, troviamo dunque Giovanni Guerrieri e Giulia Gallo alla direzione (quasi) convenzionale d’un allestimento (quasi) convenzionale: la dimensione registica non è una novità assoluta (citiamo La Romanina con Anna Meacci, oltre una dozzina di anni fa), ma l’idea d’una messinscena a partire da una commedia conchiusa, ancorché scientemente sbilenca come quella firmata da Fo nel 1961, e d’una regia a quattro mani si segnala senz’altro quanto a peculiarità.
Spazio unico, pochi suppellettili per un’ambientazione con minuti riferimenti al design postmoderno e un indovinato impiego delle luci: vi si snodano (anzi: s’annodano) le storie di una truffa d’ambito edile (col bislacco furto di un piede marmoreo) e un amore fedifrago. La chiave dello spettacolo, però, non risiede nel registro frizzante e un po’ pazzo che caratterizza tutto il primo Fo drammaturgo, bensì nella vocazione sacchiana a proporre, sempre e comunque, un ragionamento sulla scena. Questa la funzione del prologo a sipario chiuso di Annibale Pavone e Tommaso Taddei, primo di molti interventi apportati alla partitura d’origine (finale compreso). Il fil rouge è prontamente confermato dalla pacca che lo smagliante Massimo Grigò assesta sui glutei di Alessia Innocenti, sospendendo l’azione per mostrare didascalicamente come tale gesto fosse una sorta di costante nei rapporti lavorativi dell’Italia nei favolosi anni Sessanta. Si ride, e non poco.
La commedia procede così, in un incrollabile e indovinato andirivieni tra dentro e fuori la storia, dinamica metateatrale che ci pare forma di straniamento coerentissima con la poetica dei Sacchi più che con quella di un non meno (ma diversamente) brechtiano Fo. A funzionare è, senza dubbio, il ritmo: i cinque bravi attori (Taddei su tutti, nella parte che fu del Nobel) divertono e si divertono, tenendo un’ora e mezza senza il minimo calo.
Resta, però, l’impressione d’un lavoro non del tutto in assetto: da un lato, è possibile che operare su una tessitura drammaturgica forte e non auto-prodotta sia pratica inconsueta per i Sacchi, necessitante di rodaggio; dall’altro, un allestimento come questo ha, senza dubbio, bisogno di stare in scena, cosa che gli auguriamo, nella speranza che il MET, responsabile della produzione, voglia davvero distribuire uno spettacolo ora fermo, dopo le repliche del debutto; e non, come accade sovente un po’ dappertutto, aggiungere un titolo alla documentazione per ottenere finanziamenti.
Incrociamo le dita.
Di un piede.