Il connubio teatro-calcio non è cosa nuova: dal Discorso su due piedi di Enrico Ghezzi e Carmelo Bene, al memorabile Italia-Brasile 3-2 d’un quasi debuttante Davide Enia, il pallone ha sempre esercitato un fascino speciale (anche) sui teatranti, in scena e fuori. Nel nostro pezzo d’occidente, parlar di calcio è occuparsi del mondo, nelle sue più minute sfaccettature: lo sport è campo d’epica, serbatoio inesauribile di spunti, storie, e su questo assunto si è comprensibilmente basato Giorgio Gallione nel costruire Tango del calcio di rigore, avvalendosi di Neri Marcorè e Ugo Dighero.
Ambiente unico, maestoso: uno sfondo di colore cangiante a tema silvestre su cui si stagliano i cinque interpreti, impegnati in un racconto perlopiù corale, col filo del discorso (microfonato) a trascorrere di bocca in bocca, puntuale partitura di ritmi e accenti. I volti noti (motivo di sala gremita e doppia replica al sabato), sono affiancati da Rosanna Naddeo, Fabrizio Costella e Alessandro Pizzuto, questi ultimi inizialmente con maschera bianca.
25 giugno 1978, ultimo atto del Mundial d’Argentina svoltosi in un clima irreale: carri armati lungo le strade, tifosi in delirio su las bancas per il trionfo della selezione albiceleste e del generale Videla. In tribuna, di fianco al dittatore, un italiano di cui si parla pure in questi giorni, Licio Gelli, sua spalla economica; poco distanti, tra Rio de la Plata e Atlantico, gli oppositori del regime cacciati giù dagli aerei: desaparecidos. Brivido: la memoria corre al libro di Pablo Llonto, I mondiali della vergogna (leggetelo, se possibile).
L’allestimento, però, muta ben presto di tono, accenti, colori: dagli irresistibili racconti di Osvaldo Soriano (raccolti in Fútbol e Pensare con i piedi) si passa ai reportage giornalistici di Ryszard Kapuscinski, nutrimenti consueti per chi mastichi un po’ di calcio, storia e letteratura. Il tentativo sembra quello d’una polifonia tra alto e basso, serio e faceto, dalle parti del miglior Shakespeare. Eppure, più di qualcosa non quadra: la recita poggia sin troppo sulla rassicurante presenza del volto noto, al di là d’una sua performance francamente né carne né pesce, evidenziando una fragilità strutturale difficilmente discutibile. I numeri si susseguono privi d’amalgama, d’un disegno coerente, qualcosa che, al di là del tema dichiarato, leghi l’insieme in un costrutto solido: si sghignazza, talvolta; si pensa, talaltra; restando però sospesi in una bolla annoiata, e con noi il pubblico, benché lo scroscio plaudente sia ormai d’obbligo in un’epoca ove l’espressione del dissenso è riservata all’illusoria invisibilità garantita da schermo e tastiera. Non solo: se il fine è quello d’uno spettacolo sostanzialmente di narrazione, a che pro coinvolgere cinque attori mettendo in campo una soluzione pressoché da esercizio di laboratorio teatrale? Di questi tempi, più si dà lavoro e meglio è, e l’impressione di spreco riguarda più l’occasione che le risorse.
Unico guizzo, l’idiota, troppo idiota canzone simil-messicana d’un portentoso Dighero: sombrero in capo, calzone di fustagno con palla cucita al piede, occhi spiritati e un coro di cactus a dar manforte sull’implausibile ritornello, una specie di Porfirio Villarosa (Fred Buscaglione) eseguita da mariachi. Momento ubuesco, del tutto fuori misura e scala rispetto al resto, da sembrarci, senza ironia, geniale. Poco, troppo poco, per salvare uno spettacolo di grandi mezzi e scarsi risultati, senza neppure il coraggio di seguire le premesse dichiarate.
Le sale si riempiono e, per qualcuno, va tutto bene così.