Variazione sul tema, declinazione sapiente d’un patrimonio condiviso. Teatro è (anche) questo. O, volendo, solo questo, perché ogni volta che si va o si mette in scena un soggetto, si riparte da zero, lo si riscrive, lo si riformula, proponendone una più o meno rinnovata collocazione al mondo. Per questo la recente immersione in quel pelago chiamato teatro ragazzi (quasi i minori fossero una sorta d’indiani o di specie da proteggere) grazie, ma non solo, al Lucca Teatro Festival, costituisce una robusta occasione per rinnovare lo sguardo in direzione della scena.
Tra le prime opportunità, un’interessante versione di Cappuccetto rosso, regia di Sandro Mabellini, basata su una recente rilettura francese del racconto reso celebre da Perrault o dai fratelli Grimm. L’autore di spettacoli (così si definisce) Joël Pommerat colloca tutto all’interno d’una cornice contemporanea, giocando sulla moltiplicazione e lo sfalsamento dei piani. Un ordinario e deprimente alveo familiare (due genitori distratti, una bimba vivace giunta alla soglia dell’adolescenza) costituisce il quadro circostante la fiaba, chiosandone ulteriormente il senso di racconto formativo, nel delineare il passaggio, tanto “normale” quanto inquietante, dalla fanciullezza all’età adulta.
Scena nuda: due sedie al centro e poco più. A sinistra, un’altra postazione, un piccolo tavolo, un baule, un’asta al cui capo sta un microfono. Riccardo Festa è il padre vago, in altre faccende affacendato, della bimba bionda (Caroline Baglioni); terzo comodo, madre (Cecilia Elda Campani) tutt’uno col proprio smartphone. L’infante freme e, dopo qualche bizza, induce il genitore al racconto. L’uomo diviene così narratore polifonico, demiurgico rispetto sia alla storia sia allo spettacolo; è lui, infatti, ad azionare le luci (sul tavolino sta un mixer), a controllare l’audio, innescando effetti sonori tramite una pedaliera. Lui è la voce (il verbo) che tutto mòve e declina: le attrici, avvolte in abiti neri con scoperta buona porzione di gambe, fungono da carnose marionette, dando vita a repliche e sdoppiamenti dei suoni emessi a voce, nuda o amplificata.
Il gioco mette in crisi le identità: Baglioni diviene canuta nonnina (passaggio che quasi evoca l’oscillazione della fata pinocchiesca, che è bambina alla prima citazione nel racconto collodiano), Campani assume i tratti bestiali del lupo. Lo slittamento è aiutato da maschere d’efficace stilizzazione, oltre che da un’opportuna variazione gestuale. Mancano alcuni elementi del popolare racconto, tra cui la sequenza «Ma che occhi grandi che hai?»: non è un caso e, comunque, la scelta pare coerente. La storia si compie, col peculiare ritorno all’ordine, non senza un velato umorismo.
L’esecuzione convince, pure al netto di scelte non sempre leggibili, come l’alternanza voce amplificata/voce umana che potrebbe essere condotta con maggior chiarezza d’intenti (a meno che non ci sia sfuggito qualcosa). L’altra perplessità risale direttamente a Pommerat: siamo tanto sicuri che la fiaba richieda, renda urgente una qualche attualizzazione? O, piuttosto, una virtù della sua inusitata potenza risiede proprio nell’indefinizione intima e profonda che la slega da qualsivoglia legame storico? Con questo dubbio, ci uniamo all’applauso della giovanissima e attenta sala del Teatro San Girolamo.