Il titolo dello spettacolo è accattivante, su questo non si discute. Lo è anche la scena d’apertura, con gli attori che sbucano silenziosi dal fondo, Daria De Florian che si stacca dal gruppetto e annuncia: «Non siamo pronti». E poi, mostrando indecisione: «non è che non ci abbiamo lavorato, ma è meglio se rinunciamo». La strategia è chiara: catturare la simpatia del pubblico con l’ammissione confidenziale di un fallimento. Ma ogni captatio benevolentiae contiene sempre un tanto di furbizia. Ciò che è accattivante è furbo, nella misura in cui mostra (solo) il meglio di sé al fine di piacere, sedurre, imprigionare.
Questo accade in Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni: quattro attori, di formazione differente ma radunabili sotto le insegne della teatralità romana (non “romana de Roma”, ma della “Roma buona”, senza offesa per nessuna delle due facce), individuano in un romanzo di Petros Markaris (giallista e drammaturgo mezzo greco e mezzo turco) un soggetto intorno al quale costruire uno spettacolo, che spettacolo non è, o perlomeno finge di non esserlo, con grande abilità nello schermirsi.
Il soggetto in questione, crudelmente legato all’attualità, è la storia di quattro pensionate greche che decidono di suicidarsi per non gravare sulle casse dello Stato, già pesantemente debilitate, come e più di loro, dalla crisi economica. Storia curiosa: vera, immaginata o verosimile, poco importa. Atto di supremo coraggio o di vigliaccheria, poco importa. Perché lo spettacolo non si produce mai in una riflessione sul soggetto stesso, tantomeno prova a esporlo. Bordeggia, piuttosto. Divaga, cerca una complicità metateatrale, che è allo stesso tempo vaniloquio autoreferenziale. Parlano di sé, i quattro attori, e anche quando accennano un dialogo (che mai si realizza, in effetti) sembrano passarsi il testimone di un’autoanalisi: riportano le proprie lamentazioni, le proprie patetiche (e simulate) incertezze, i propri tentativi di dare comunque una forma presentabile al lavoro. Pezzi ben recitati, sia chiaro, ancorché leziosi, accattivanti, di nuovo. A essere esibita è la loro esistenza di attori (r-esistenza, si sente spesso dire, elevando uno sciocco gioco enigmistico a pregnante enunciato filosofico), fingendo che ciò avvenga per modestia, per riserbo nei confronti di un tema troppo arduo da sviluppare (ma nessun tema lo è), troppo difficile da inscenare visivamente (e in fondo l’unica vera azione avviene alla fine, quando i quattro rivestono di nero se stessi e i pochi arredi in scena).
Fingendo che non sia una recensione (cosa che è, ma potrebbe non essere), o forse solo cercando di arrivare alla misura più consona per una recensione (pareggiando così lo sforzo dello spettacolo di durare almeno un’ora), aggiungo che la sala era troppo riscaldata, la serata era piovosa e lungo la via del ritorno non ho incrociato più di una dozzina di auto.
Applausi finali (hanno vinto l’Ubu, quindi li meritano), critiche entusiaste, supplemento di tournée.