Una giaculatoria di luoghi comuni lunga novanta minuti. Ogni stereotipo possibile e immaginabile rappresentato con cura maniacale. Monologhi puramente tragici intervallati da altri intrisi di comicità: a separarli, un cambio di luci, una canzone, una canzone evocativa (da Vasco Rossi ai Velvet Underground). Quattro attrici parlano in prima persona, ostentano (scimmiottano) dialetti e accenti stranieri come se stessero intrattenendo il pubblico di Zelig: tutto scivola via, ma niente si aggrappa all’anima, la denuncia resta sterile, povera. Non è presente la benché minima ricerca del perché avvengano atti di terribile violenza sulle donne. La riflessione sulla violenza, sulle sue motivazioni profonde, e sul destino delle vite spezzate che essa genera, non viene mai tentata, sicché tutto s’appiattisce sui luoghi comuni: l’uomo tenero ma geloso che perde la testa, il “padre padrone”, l’orco. Alla banalità del male soccombe pure la storica differenza tra destra e sinistra: la militante del PCI uccisa per una svista dal proprio compagno (di partito e di vita) subisce terribili violenze esattamente come la moglie del fascista, il tutto in un forzato accento emiliano. La donna sicula è vittima di un delitto d’onore, la giovane ragazza africana si spegne causa un’emorragia provocata dall’infibulazione. I ritmi televisivi dei brevi monologhi suggeriscono la volontà di dare allo spettacolo un ritmo incalzante, coinvolgente, ma il testo, che dalla cronaca reale prende spunto, non si solleva mai da essa.
La scena è caratterizzata da un parallelepipedo sul quale vengono proiettate immagini femminili; la struttura è funzionale, utilizzata come scrivania, bancone da bar, palco per conferenze. La regia altro non è che la scaletta degli interventi, giustapposizione di storie troppo vere per poter diventare teatro, per potersi fare racconto di qualcosa d’altro. Nessun mistero, nessuna sorpresa, tutto previsto. Come macchiette, queste donne perdono tridimensionalità, sostanza e lo stesso avviene per i loro carnefici. I torturatori, padri, fratelli, mariti, compagni, non sono che figli viziati, incapaci (per colpa di madri apprensive e troppo servizievoli) di liberarsi dallo stereotipo dell’innamorato ossessionato dagli sms e dalla chat.
Non c’è, in tutto lo spettacolo, un solo tentativo di capire o, quanto meno, indagare la natura del male; non è possibile riconoscere alle parti in causa (uomini e donne, vittime e carnefici) una vera umanità. Ferite a morte non si pone domande perché sfodera già tutte le risposte. Perché gli uomini di queste storie sono tanto incapaci di metabolizzare dolore, tradimento, abbandono o, più semplicemente, la legittima ricerca di libertà e autodeterminazione delle donne? La successione dei racconti non fa che ostentare il fatalismo degli eventi, come se si trattasse di un infallibile destino di morte. Risuona più volte una cupa e arrendevole frase: «gli uomini, si sa, sono fatti così». Così come? Per Serena Dandini sono violenti, incapaci di contenere la rabbia, oppressivi, distanti, assetati di sesso e calcio, fragili. Quante possibili sfumature, quante impressioni da sviluppare, restano imbrigliate nel susseguirsi di storie da cronaca nera?
Alla fine, le attrici si prendono gli applausi scroscianti del Verdi di Santa Croce sull’Arno: gli uomini e le donne se ne tornano a casa convinti, le une, di non esser le vittime, gli altri, di non essere i carnefici. La tragedia della banalità può continuare indisturbata.