È un tentativo composito quello che La Cattiva Compagnia, promotrice e traino del Lucca Teatro Festival, porta in scena con Ernest e Celestine, regia di Giovanni Fedeli. Vi s’intravedono gli ingredienti d’un ben fornito lessico teatrale e ricorrenze interessanti rispetto ad altri lavori dati in questi giorni. Dalla commistione narrazione/interpretazione, già in Cappuccetto rosso, istanze opposte che trovano conciliazione in Cristiana Traversa, raccontattrice, voce della storia e personaggio, in particolare la terrorifica Grigia, roditrice responsabile dell’educazione allo spavento della piccola Celestine. La scenografia minimale, un baule da trovarobe sorta di “scatola fantastica”, borsa à la Mery Poppins, e poche ordinarie sedie di legno che sono ora cassaforte, ora furgone, ora pareti domestiche, pare idea azzeccata, magari puntando ancor più su partiture gestuali significative ed efficaci in grado di abdicare allo strapotere della parola. E il commento musicale: due musicisti sul fondale, di lato (forse troppo isolati, giacché in alcuni momenti partecipano anch’essi all’azione grazie a comici inserimenti), “armati” di flauto traverso (Valeria Marzocchi) e clarinetto (Lorenzo Del Pecchia, che aziona pure altri oggettini rumoristici). Sottolineano, punteggiano, arricchiscono il dettato scenico grazie alla bella partitura appositamente realizzata da Silvia Marchetti.
Tutti ingredienti utilissimi a uno spettacolo che voglia fare della fiaba di Pennac lo spunto per un discorso sull’amicizia, la tolleranza, l’accettazione dell’alterità a uso dei più piccoli. Il teatro, come l’arte culinaria cui lo accomunano numerosi aspetti condivisi (la dimensione effimera su tutti: una pietanza, come uno spettacolo, vien meno al momento stesso in cui la si esperisce e lascia solo tracce di memoria), non s’accontenta, però, di idee o spunti. Necessita rigore esecutivo, puntuale realizzazione, tanto più se la ricetta è elaborata, ché ogni sintagma pretende un grado opportuno di giustezza. Perciò spiace, in casi come questo, dar conto d’un tentativo solo parzialmente andato a buon fine, quasi il passo fosse stato troppo per la gamba. Non abbiamo la pretesa di corregger nessuno (non sapremmo fare di meglio e, dei critici, odiamo la presunta pretesa di saperla più lunga dei realizzatori), solo di mettere a disposizione il nostro sguardo, evidenziando, se possibile, elementi che potrebbero sottoporsi a miglior registrazione.
A partire dalla storia, forse troppo articolata, innervata d’inserti non sempre necessari (la categoria dell’urgenza è fondamentale in ogni tipo d’espressività artistica), per dire della recitazione (non spiace la topolina di Tiziana Rinaldi, pur modulata su tonalità da pigolìo macchiettistico) che potrebbe essere più rotonda, accurata, o dell’impiego delle luci, non sempre in grado di abbinare comunicazione ed espressività. Nell’insieme, si sentirebbe necessità di maggiore e più efficace pulizia. E una certa coerenza struttrale: nei costumi (la topolina è truccata, l’orso stilizzato) o nell’uniformità inizio/finale, con la narratrice prima già in scena (al contrario dei musici) e che, poi, esce, lasciando agli strumentisti l’onere della chiusura.
Compito non facile, ma certo non impossibile, per La Cattiva Compagnia, cui va riconosciuto il grande merito dell’organizzazione (faticosissima) del Festival, uno sforzo inusitato profuso da persone davvero innamorate del teatro e cui tributiamo ugualmente un applauso sincero.