Il teatro, più di altre discipline performative, può comportare una forma di grande libertà espressiva, in grado d’avvalersi di una potenza che il pubblico non esperto riconosce solo all’indubitabile comodità (produttiva e distributiva) del cinema e della televisione. Càpita, invece, che certi spettacoli, e segnatamente allestimenti destinati a un pubblico di bambini o ragazzi, riescano a mettere in scena autentiche macchinerie favolistiche, composite bizzarrie di sicura suggestione. Lo abbiamo visto con Bleu!, e ce lo conferma un altro allestimento, diverso per esecuzione e intenti, ma di non minor impatto come I Love Frankenstein presentato da Eccentrici Dadarò.
L’Auditorium del Suffragio non lesina luminosità esterna: ciò non compromette l’impressionante effetto d’una visione di raffinata matrice gotica. Campeggia in scena un’ingombrante carrozza settecentesca, alla cui sommità non s’agitano cavalli, bensì un cocchiere (Marco Pagani) di tratti e movenze grottesche.
Rombi, sussulti e tuoni contribuiscono all’effetto, accompagnati da lampi di luce provenienti sia dall’interno sia da sopra la carrozza. Potrebbe essere una rappresentazione horror, se non fosse che, dall’abitacolo, spuntano due personaggi dal trucco vampiresco (pallida biacca in viso, occhi evidenziati dal nero), ma troppo buffi per esser veri. Sono i coniugi Frankenstein (Rossella Rapisarda e Davide Visconti) costretti a un secolare ininterrotto pellegrinare sotto una pioggia incessante: li vediamo comparire e sparire dalla finestrucola della carrozza mentre gli elementi infuriano. Quando la bufera sembra placarsi, i due escono: eccoli, dunque, spiazzati e maldestri, rivolgersi al pubblico, dicendo e non dicendo quel che li ha condotti in tale precarissima soluzione. Di certo, si sa solo che l’incrollabile maledizione (guai a pronunciare la parola a voce alta) della pioggia potrà sciogliersi dinanzi a un grande gesto d’amore. Peccato che i due già s’amino davvero, e sinceramente: coppia eccentrica, non c’è che dire, tra Addams e l’ovvio riferimento cinematografico di Mel Brooks, che buona parte dei ragazzi in sala sembra saper cogliere.
A impreziosire il tutto, l’elemento musicale: il cocchio è, in pratica, una batteria elettronica e il “mostro” che guida il calessino impugna bacchette, non redini. Dopo le prime sequenze dominate da una confusionaria sorpresa (parliamo dal punto di vista dello spettatore), ben presto si capisce che squassi sonori e botti sono diretta conseguenza del tambureggiante intervento dell’improbabile cocchiere. Il quale impugna pure la chitarra, a commento dei sentimentali flashback in cui lady Frankenstein ricorda il passato o agogna il miglioramento dell’insopportabile condizione.
Va da sé che tutto si risolverà (è evidente che il “peccato originale” sia la sfida intrapresa dal dottor Frankestein nel volersi sostituire a Dio), che l’amore sia destinato a prevalere, ma questa ci pare la porzione meno interessante d’uno spettacolo la cui forza sta nel grande ingegno rappresentativo e, se pensiamo al pubblico di destinazione, in un gusto citazionistico non alieno da certe atmosfere di Tim Burton (su tutti Il mistero di Sleepy Hollow, ma non solo). La conclusione, con l’immancabile «Si… può… fare!» scatena, infatti, l’ilarità del pubblico filmicamente più preparato.