Festival e rassegne, si sa, possono offrire l’opportunità di vere e proprie immersioni totali: ciò rappresenta la forza (e per alcuni anche il limite) di questo tipo di eventi. Si propende tuttora per la prima istanza, confermando l’effetto quasi amniotico che la giornata di sabato 28 marzo del Lucca Teatro Festival è riuscita a sortire. Due allestimenti al mattino, Il cielo degli orsi [qui la recensione, ndr] e I tre porcellini [anche qui la recensione, ndr], due incontri post prandiali (il primo, con Mario Bianchi, moderato da chi scrive; l’altro, assai interessante, con Carlo Presotto e il nostro Giacomo Verde) per poi chiudere in scioltezza con un’anteprima nazionale, La gazza ladra di Fabrizio Bartolucci e Sandro Fabiani, titolo che ostenta un ovvio riferimento all’omonima opera di Gioachino Rossini.
Il maestro pesarese in trasferta a Lucca, terra pucciniana (seppur rapporti e attribuzioni siano tuttora difficili a novant’anni dal trapasso): la coincidenza è curiosa, stuzzicante, e ci apparecchiamo ben disposti alla visione. Prima di procedere un attore chiede al pubblico se si sia trovato un cucchiaio d’argento in sala: timidamente, un bambino conferma; viene invitato a centro palco, per depositare in un contenitore la preziosa stoviglia.
S’inizia con la musica, non potrebbe essere altrimenti: sulla vivace partitura dell’ouverture del titolo, ecco dispiegarsi una serie d’immagini proiettate sullo sfondo. S’avvicendano giochi d’ombra e luce, con siloette muliebri a creare peculiari effetti visivi. Ben presto, lo spettacolo cambia linguaggio e, complice una voce fuoricampo, si viene introdotti alla vicenda. A dire il vero, non è solo l’opera semiseria col libretto di Gherardini a fungere da fonte: in un tripudio di riferimenti rossiniani, si spazia dall’immancabile Barbiere a citazioni musicali più gustose (Guglielmo Tell e La Cenerentola, oltre a riferimenti, nel testo, per Il turco in Italia, L’italiana in Algeri, Il viaggio a Reims e, forse, pure La gazzetta), per una full immersion tumultosa, quasi da impazzar.
La scena è dominata da una gigantesca gabbia scura, con sbarre assai larghe: alla sua sommità, ecco la gazza (Sandro Fabiani in uno stretto costume bianconero, come il volatile) che, pian piano, scende calato da un montacarichi guadagna il terreno per assumere improbabili forme umane. Se la confusione è una delle dimensioni drammaturgiche care alla produzione buffa del pesarese, c’è da dire che questa Gazza si rivela rispettosa di cotanta fonte: la storia, seppur lineare, è infatti innestata da interventi disparati (Fabrizio Bartolucci, nei panni di Gessler, da Guglielmo Tell, e Massimo Pagnoni, istrionico Figaro barbieristico: entrambi coinvolti come giudici, nel farsesco finale) per un pot-pourri d’innegabile gusto (Rossini vince sempre, non v’è da stupirsi), ma dai farragginosi risultati per quel che concerne l’economia spettacolare. S’alternano personaggi, figurazioni comiche, sintagmi pensati per agganciare l’attenzione, la cui efficacia parrebbe come minimo parziale. Non che sia per forza necessaria una trama, anzi, ma una minima coerenza (pure di linguaggi) sì: l’impressione è che, in questa messinscena, venire un minimo a capo di quel che accade non guasterebbe, benché la con-fusione possa benissimo essere una caratteristica del gruppo, come si vedrà nel più rodato Nessun dorma. Con La gazza ladra si precipita, invece, in una costruzione che di certo affascina musicalmente, ma il cui reale divertimento potrebbe solo scaturire dal giochino postmoderno della riconoscibilità, la passione citazionistica che ereditiamo dal Novecento, difficilmente patrimonio del pubblico deputato per questo spettacolo («dai 5 anni» recitano le note di regia).
La gazza risale al proprio posto, gli applausi arrivano comunque: trattandosi di anteprima, è ovvio che si tratti di un test. Ci auguriamo che lo spettacolo nel tempo possa crescere e pareggiare, per bellezza, con l’altissimo riferimento musicale.