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Psicopompo, non molti lo sanno, è una parola inclusa nel nostro vocabolario: derivante dal greco, indica la figura che traghetta le anime dal mondo dei vivi a quello dei morti. L’esempio più celebre è quello, pure grazie all’Alighieri, di Caronte; trattandosi d’una figura archetipa, anche il cristianesimo ha il suo nocchiero nell’arcangelo Michele, che sovente l’iconografia ritrae scortatore d’anime buone sottratte al demonio.
E Michele è il nome del personaggio di Dario De Luca nel lavoro che lo vede trino, autore, regista e attore: ne ascoltiamo, a inizio recita, la voce off, in una telefonata “logistica”, relativa a un incontro. Lo troviamo, subito dopo, in uno spazio di sapore borghese: al centro, un canapé trapuntato, quasi un arredo da seduta psicanalitica; sulla destra, un mobile-giradischi; dietro, una possente parete a cornice che delimita e dimezza il palcoscenico. Con lui, una donna bionda, signorile, sui sessanta, capelli scarmigliati, sospesa tra l’evidente sconcerto e una disperazione non dissimulabile. L’agnizione, il reciproco riconoscimento, avvenuta fuori scena: adesso è l’imbarazzo rancoroso ad avviluppare questa coppia madre-figlio, entità nucleare che chissà quale detonazione ha allontanato, forse irrimediabilmente. Il motivo dell’inattesa reunion rappresenta il cuore del dramma: Michele è un infermiere e, clandestinamente, presta servizio a coloro che vogliono porre fine a una vita resa insopportabile dalla malattia; è uno psicopompo del nostro tempo. Mai si sarebbe figurato, però, di trovarsi davanti colei che la vita gliela diede, partorendo.
Questo l’abbrivio per una scherma drammatica serratissima, a tratti violenta, eppure misurata nei toni e nei gesti: Milvia Marigliano è debordante per vibrata efficacia e profondità vocale, e il suo italiano sporcato di settentrionale disegna perfettamente questa signora acuta, sensibile, presente a sé quanto decisa a farla finita, pur in assenza di malattia terminale. Il testo qui s’acumina: Michele s’oppone, dice, giustamente, di non essere un assassino, che il suo lavoro, ancorché illegale, è misericordioso, perché pone fine a sofferenze indicibili. Ma soltanto la medicina può arrogarsi il diritto di definire quali siano o meno le sofferenze dicibili? Questione spinosa, divenuta centrale nella nostra realtà pandemica.
Emergono traumi più o meno rimossi, la morte del fratello maggiore Gabriele (altro nome d’arcangelo…), violinista, e la musica irrompe sia nello spazio teatrale (l’ouverture di Also Sprach Zarathustra di Richard Strauss, tema cardine di 2001 Odissea nello spazio, titolo persino citato da Michele, e Music for Airports, di Brian Eno) sia su pagina, giacché ogni scena è introdotta da un’indicazione di andamento musicale. E lo spazio si modifica, a vista, coi due che spostano la parete di fondo, prima inclinandola di lato rispetto all’asse del proscenio, poi collocandola parallelamente a quest’ultimo, sorta di cornice entro cui si svolge la scena finale, dato che gli attori recitano dietro a quello che si rivela un velo. Le soluzioni visive, coerenti e azzeccate, traducono la dimensione asfittica del dramma e l’insostenibilità del finale, che sembra necessitare l’allontanamento implicito e all’inquadramento di secondo grado (l’arco scenico è cornice già di per sé) e alla schermatura. La scelta esiziale si compie, così come un ultimo, estremo e fuori tempo massimo riavvicinamento tra i due, quasi a sfidare l’ineluttabile solitudine della morte.
Applausi per un lavoro denso che inaugura Lucca Visioni, rassegna proposta dal Teatro Del Carretto, unica offerta di teatro contemporaneo in una città che pare condannata all’intrattenimento.