La presunta o conclamata “crisi del teatro”, oltre a depositarsi come tartaro sullo smalto dei giudizi pronunciati da recensori e osservatori, ha il pessimo effetto collaterale di lasciar credere ai teatranti che la pochezza dei loro risultati dipenda esclusivamente dalla mancanza di risorse, dall’ostilità dei tempi. Quando, in un’epoca più fortunata (ve ne sarà pure una, prima o poi), la dittatura del portafogli vuoto cesserà di tiranneggiare i creatori, non sarà più possibile nascondersi: o si mostrerà, coi fatti, il proprio genio e la propria fantasia, o si dovrà ammettere d’aver sbagliato mestiere. Scopriremo solo allora chi avrà speculato sull’equivoco e chi ci avrà rimesso davvero.
Nel frattempo conviene ancora dire – e non per gusto del proverbio – che in certi casi le ristrettezze acuiscono l’ingegno. Ancor più semplicemente: di necessità virtù. La virtù che si deve riconoscere a Dario Marconcini è la sapienza nel recuperare minuscoli e preziosi oggetti drammaturgici, pari a quella del collezionista che fruga nelle cantine e nelle bancherelle in cerca d’una rarità; e l’ancor più nobile sapienza nel maneggiarli, facendo assegnamento sull’evidenza del corpo dell’attore, e della sua voce.
Voci, appunto, come le Voci di famiglia messe in scena nel piccolo teatro di Buti (si replica per cinque sere): un testo misconosciuto dell’ultimo Harold Pinter, originariamente pensato per la radio (tradotto da Alessandra Serra, come il Silence-Silenzio, già recensito non molto tempo fa), che ha per tema il rapporto complesso tra una madre e un figlio lontani. Le lettere che questi si scambiano, scritte ma forse non ricevute (oppure intercettate da qualcuno, come potrebbe intuirsi da un paio di passaggi), vanno a formare un dialogo sconnesso, diviso. Una parete di velatino separa l’avanscena, dove il figlio (Emanuele Carucci Viterbi) siede su un vecchio divano, dal retropalco fiocamente illuminato dov’è la madre (Giovanna Daddi). Spazi distinti e non comunicanti.
Lui è affittuario di una casa abitata da ambigue presenze, da cui sembra attratto e respinto a un tempo, incuriosito dagli incerti rapporti di parentela e dalle abitudini inconsuete dei coinquilini. Lei, nella vana attesa del figlio, oscilla tra rimpianti e rimproveri, ritornando ai ricordi del marito morto, che infine si materializza (Dario Marconcini), da ombra o fantasma di sé, quale mittente d’una aspra lettera al ragazzo.
Perfetta la recitazione dei tre, soprattutto di Viterbi, cui spetta la parte più sostanziosa: asciuttissima (e per questo non convenzionale), a tratti spiritata, come venisse da irraggiungibili distanze.
Mentre si fa buio dopo l’ultima enigmatica missiva, si diffondono le note dell’aria di Purcell dal Dido and Aeneas nota come Lamento di Didone, «remember me but oh don’t forget my fate» (ne ricordo un’interpretazione di Jessye Norman, che sia quella?): una meraviglia.