Tutti gli spettacoli meriterebbero un manifesto – un’affiche, per fare i raffinati – che, pur rimanendo fisso, incollato a un pannello in doppia o quadrupla copia, riesca ad eccitare la fantasia del passante affaccendato, a incuriosire l’automobilista inchiodato al semaforo, a sorprendere il passeggero distratto sul filobus.
Non tutti ne hanno uno, ahimè, e gli spettacoli che hanno la fortuna d’essere reclamizzati per via di affissioni pubblicitarie ne hanno forse più svantaggi che benefici.
Io, che sono Arlecchino, sono vagabondo per natura. E quando passeggio, ciondolando tra le vie che si svuotano all’imbrunire, mi fermo a guardare i manifesti dei teatri. E giudico.
La penuria di spettacoli che si è notata nel mese appena trascorso ha avuto come riverbero deteriore la scarsezza di manifesti a cui guardare. Mi sarà quindi perdonato lo sbrigativo svolgimento della rubrica di cui sono orgoglioso detentore. Egualmente interessanti sono i tre esempi che propongo qui di seguito, per ragioni diverse.
Rosso e nero formano un binomio cromatico di sicuro impatto. In più, il profilo della bomba a mano (o granata, com’è detta alternativamente), lascia prevedere argutamente il soggetto dello spettacolo.
Che si parli di guerra è quindi chiaro, com’è chiara la scaltrezza di chi ha impaginato il manifesto di Kamikaze number five (passato su un palcoscenico pistoiese, e da noi prontamente recensito), con moderna e intelligente giustificazione a blocchetto.
La foto d’epoca scelta per illustrare la locandina di Voci di famiglia, ultima produzione del Teatro di Buti (anche questa da noi sguardazzata al debutto assoluto), funziona in virtù della bruttezza dei tipi ritratti, che facciamo risalire ad almeno un secolo addietro. Come dire che proprio la sua sfocatura, i suoi bordi irregolari e frastagliati, e la composizione senza acuti cromatici, risulta affascinante proprio per negazione di fascino.
A me, Arlecchino, piace contraddire chi mi vuole incolto: sicché, facendo sfoggio dei miei studi, voglio premiare il manifesto della Dodicesima notte, vestizione scespiriana che Carlo Cecchi ha portato anche in Toscana (prima col debutto estivo in Versiliana, poi nelle sue soste a Pistoia, di cui abbiamo dato conto, e Massa). L’elenco dei crediti (del quale noto la stucchevole scelta di un carattere tutto svolazzi per i nomi principali, secondo la moda superata dell’handwriting), s’appoggia infatti su un dettaglio del dipinto di Antoine Watteau noto come La Surprise. La porzione qui ritagliata (un suonatore di chitarra nell’abito di Mezzettino, variazione regionale dei miei antenati Brighella e Scapino) fa a meno del soggetto principale del quadro: una coppia che si abbraccia, struggendosi d’amore.
E anch’io mi struggo, nella speranza di idee più numerose e più creative.