Un’idea, un concetto, un’idea finché resta un’idea è soltanto un’astrazione
Sono parole tratte da Un’idea (1973), celebre canzone del Signor G che, a parer nostro, calzano perfettamente con lo spettacolo Cappuccetto Osso, andato in scena in prima nazionale il 28 aprile al Teatro Studio di Scandicci. Abbiamo avuto il piacere di assistere alla replica di giovedì 30, poco affollata a causa della concomitante Notte Bianca nel centro fiorentino, dove uno dei sostenitori (Teatro Studio Krypton) della compagnia Gogmagog aveva una performance in San Lorenzo.
Una scena spoglia, fatta principalmente da un fondale, schermo su cui si rifrange una luce rossa per tutta la durata del pezzo; davanti, sulla sinistra, un ceppo. Due soli attori vivono il recinto: Cappuccetto Osso (Cristina Abati), soprabito grigio, una giovane tanto svampita quanto esperta di “giochi” sessuali (come la creazione di coppie tramite una colorata fellatio: le candide bambine indossano un rossetto colorato, al buio realizzano il servizio, una volta tornata la luce, ogni bocca è ricondotta al proprio “cappuccetto” maschile) e Travis Bickle (Carlo Salvador), il protagonista di Taxi Driver qui immolato nel ruolo di lupo e ancora affetto dalla sua mania di film pornografici.
La drammaturgia è volutamente sottile, tutto ruota intorno a suggerimenti scenici. Come la giovane che, durante il tragitto per andare dalla nonna, si sofferma nella radura a fare training autogeno attingendo alle posizioni yoga; o come il lupo che si toglie la maschera e diviene il protagonista del film di Scorsese, mantenendo, ogni volta che ottiene un contatto con Cappuccetto, il proprio status animale reso acusticamente da un ululato registrato. Si citano entrambe le storie tramite due scene: la dolce bambina che va dalla nonna e che incontra il lupo; Travis che, dopo un lungo corteggiamento, riesce a portare Betsy al cinema, ma cade in errore conducendola in una sala a luci rosse. Alcune descrizioni (poche) inerenti alla storia di Perrault sono raccontate dalla voce off di Tommaso Taddei.
Il resto è tutto in mano a Cristina Abati e Carlo Salvador, interpreti di ruoli complessi, ma allo stesso tempo accattivanti, che necessitano un maggiore sviluppo e studio drammaturgico. L’idea c’è: far incontrare Travis con Cappuccetto, ma tale contatto non può essere solo fisico (un rapporto sessuale accompagnato dalle voci che cantano Furia il Cavallo del West) o consegnato ai dialoghi filosofici tra lui, che vuole trovare il proprio scopo nella vita, e lei che, nel suo menefreghismo, canta Paradise (celebre hit di Phoebe Cates, compresa nell’omonimo film di Stuart Gillard, da lei interpretato nel 1982).
Qualcosa si evolve, con l’inaspettata scoperta del contenuto del candido cestino destinato alla nonna: non dolciumi, ma pistole. S’aggiunga l’amore spasmodico di Travis per le armi e, forse, qualcosa può cambiare, o perlomeno succedere. Si trascina in maniera rapida nel tragico finale e a noi resta soltanto un’astrazione.