Chi scrive ha una predilezione per la grande drammaturgia americana del Novecento, Tennessee Williams, Eugene O’Neill, Arthur Miller: lo stile veemente e asciutto, la realtà cruda dei rapporti umani e familiari, la sfera affettiva dei personaggi su cui grava il peso di castighi immeritati o di ideali troppo forti da rispettare.
Per contro, lo scrivente ha una fiera avversione per gli spettacoli che durano più di due ore («the two hours traffic of the stage» di elisabettiana memoria), superate le quali la fatica nel tenersi attento e la dolorosa scomodità delle sedute prevale pure sulla più appassionata ammirazione.
Dico questo per introdurre la versione (integrale) di Morte di un commesso viaggiatore che il Teatro dell’Elfo ha portato in scena al Manzoni di Pistoia (recuperando le repliche saltate a marzo per la temporanea inagibilità del teatro).
Duecento minuti di serissima interpretazione, quasi senza tagli e manomissioni rispetto all’originale di Miller pubblicato nel 1949 (i tre atti sono qui convertiti in due tempi di uguale durata, la traduzione usata è quella di Masolino D’Amico): serissima e filologica edizione, dunque, ma eccessivamente scrupolosa, a meno che Elio De Capitani, qui regista e primo attore, non abbia pensato che lo spettatore di oggi debba essere guidato passo passo per capire il fallimento umano e professionale dell’impiegato e capofamiglia Willy Loman, non già una tragedia annunciata, ma una verosimile discesa nei precipizi della psiche. Si può credere allora che De Capitani, sempre ammirevole per il suo rigore, si sia fidato ciecamente del testo, lasciandosene guidare fin dalla prima poetica scena, in cui ci è mostrato il modesto appartamento dove vive la famiglia di Willy – vecchia carta da parati, elettrodomestici non certo nuovi di zecca e cucinotto con vista sul giardinetto posteriore – com’è descritto all’incirca nella verbosa didascalia iniziale di Miller (assai diversa, per fare un esempio, la scelta di Mario Sciaccaluga, quando mise in scena un testo abbreviato in una scenografia dai tratti essenziali).
È un credibilissimo e opprimente interno domestico, in cui è quasi naturale sentir pronunciare parole che sanno di frustrazione, di conflitti tra genitori e figli, di rimproveri e recriminazioni. Vorremmo evitare di ribadire la triste attualità del testo, in epoca di esodati e vittime del lavoro (psittacismo assai comune sulla carta stampata), e concentrarci invece sulla lettura più squisitamente psicologica che ne ha dato De Capitani, speculando correttamente sulla particolare oscillazione del testo tra sequenze reali e flashback (o sono sogni? o falsi ricordi? The inside of his head doveva essere il titolo del dramma, del resto): oscillazione risolta scenograficamente con un susseguirsi di mutazioni giocate perlopiù sulle cangianti tonalità luminose e sulla movimentazione di pareti e arredi (il setting è firmato da Carlo Sala).
In una compagnia piuttosto omogenea per stile recitativo (schietto e facile, a tratti forse troppo, volendo rendere espliciti certi sottotesti), restano impressi alcuni momenti di Cristina Crippa, la quale infonde al personaggio della moglie Linda note amorevoli, segno di un’indole fragile, forse vile e devota per mediocrità; pure, nello straziante finale (che Miller chiamò Requiem), ultima a lasciare la corona di fiori che rappresenta la tomba del marito suicida, la sua voce ha un qualcosa di ferreo e solenne che si fa ricordare.