Si entra accolti da una selva di complici sorrisi: cordiali, invitanti, fraterni. Poltrone distribuite ai lati, per uno spazio prossimo più a un’arena circolare, anzi ellittica, che alla forma nota della sala Ryszard Cieslak, in cui pure abbiamo già assistito a numerosi allestimenti negli anni. Le poltroncine sono allo stesso livello della scena, corrispondente alla porzione di stanza sgombra dalle sedie; queste quasi per intero occupate da un pubblico composto, ma in palpabile attesa. I sorrisi sono degli attori biancovestiti, tenuta paramonacale, uomini e donne: prevale una sensazione, filiforme ed elettrica, di sospensione, a prefigurare quasi un’epifania. Da qui, la voce.
Si spandono in sala i timbri, ora argentini ora più cupi, degli attori prodottisi in canto. Un inglese percepibile eppure trasfuso, quasi altro da sé, nella rievocazione di miti fondativi a matrice religiosa (la Bibbia come autentico repertorio poetico), quella religione che tenta, non senza gioiosa disperazione, il ricupero della radice etimologica: re-ligio, tenere le cose assieme. Dal canto procedono il movimento e il coro: plateali e rotonde le movenze nello spazio nudo d’arredi, abitato da soli corpi sonanti, talvolta muniti di qualche oggetto, un bastone, un legnetto da sfruttare ritmicamente. Se ne presagisce la concertazione e, al contempo, una forma di libertà concessa a ogni interprete, pratica attoriale di dialettica elasticità. A canto segue canto, a danza, danza, piano coreutico arioso, semplice da parer naturale.
Non c’è soluzione di continuità, né parola chiarificatrice: tutto scorre sulle sinuose linee musicali, nel vibrante rimbalzo delle onde sonore che s’inseguono, a creare piacevoli riverberi e, in questo, riscontriamo forse una coerenza col titolo dell’allestimento: Le parole nascoste, in inglese The Hidden Sayings. Ci sentiamo soli, da un lato, quello dell’intelletto, ma forse è limite tutto nostro, dinanzi alla tradizione black dei Southern USA, la sua musicalissima religiosità sincretica, sovrapposizione d’istanze europee e vitalismo africano, per «riscoprire vie di trasformazione e contatto», secondo le note di regia.
Il progetto dell’Open program of the Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards si concentra sul contatto/contagio tra repertorio afroamericano ottocentesco e antiche testualità risalenti alla prima cristianità: ed è un peccato, forse, che nella fruizione si perdano le tracce evidenti di questa ricerca e la domanda sottesa da Mario Biagini («Quale può essere per noi oggi la funzione di questi canti e di questi testi, entrambi alla radice della cultura in cui viviamo, in modi diversi?», sempre dalle note di regia) rischi di restare senza risposte. Non perché gli enigmi debbano di necessità sciogliersi, tutt’altro, ma per il nostro limite di spettatori “occidentali”, amputati della facoltà di percepire compiutamente una performance che non disponga l’impiego di opportune coordinate informative.
Con la sua tornita e florida musicalità, Le parole nascoste rischia d’imprimersi nella memoria emotiva quale prova esemplare le cui orme nascono già esposte all’estinzione (processo inevitabile, e salutare, che tutto coinvolgerà), il che ci pare sostanziarsi, forse, come un’occasione meritevole, ma non appieno sfruttata.