Notturna, la brezza estiva sbuffa sul prato del Castello di Lari, a risarcire un pomeriggio di calura. Il mai totale silenzio campestre avvolge una scena spoglia: due casse, altrettante piantane ai lati. Vi s’agita inquieta una bizzarra silhouette antropomorfa. Un tintinnio metallico: l’intera superficie della giacca, un modesto trequarti che cade lacero sulle spalle da clochard dell’ambivalente presenza, è ricoperta forse da spiccioli a mo’ di medaglie. Pigolano di luce come un cielo stellato, nell’andirivieni borbottante d’una voce chioccia che (si) ripete «Non è vero». I riflettori carezzano soprabito e metalli: sono chiavi, d’ogni foggia e spessore, perdute, trovate.
Eroico, disperato è il teatro di Roberto Latini, ossessiva lotta sul rasoio della rappresentazione, forzando i sensi d’un pubblico smarrito, intrappolato nei meccanismi del comodo e dell’acquisito, nella cieca sordità del banale. Lui non s’arrende, scava il dolore, individuale, collettivo, i fallimenti grondanti sangue. Instilla bruciature saline con una scena che s’offre alla vista ma rifiuta il già visto, a rischio di tracimar oltre il limite stesso di sé, quell’o-sceno inesperibile, intoccabile.
«Non è vero» ripete di sotto la maschera brillantinata, inferico Pierrot lunare. Movenze gallinacee, braccia a marionetta: sibila parole d’amore, caduche appena pronunciate. Poesia in prosa, voce nello spazio, fasciata nella partitura sonora tra schegge sovrapposte di gighe irlandesi e sound industriale, sinché la stessa voce registrata declama quanto appena sentito. «Non è vero», chiosa dal vivo. Giacca sfilata, ferino, sull’erba, impugna un bacile, lo raccoglie con le labbra, la bocca vermiglia di sangue: immagine fobica, angosciante.
Il respiro del pubblico è sospeso. Noosfera Museum è sfida, paradosso: terzo movimento (dopo Noosfera Lucignolo e Noosfera Titanic) d’un percorso costruito sull’idea di coscienza superiore, la sfera che possa com-prendere, con-tenere il pensiero (nous dal greco) umano, in un rinnovato e ulteriore principio d’unità. E questo altrove potrebbe essere il teatro, declinato ai limiti di sé, ultimo approdo d’una scena di metafisica nostalgia, un chissà dove all’indomani dell’ultima catastrofe. In questo au-delà sembrano cogliersi muti lacerti di poesia trascorsa in attesa che qualcuno (il Rimbaud di Une saison en enfer, lo Shakespeare di The Tempest) nello sprofondo d’una noia eterna li strappi all’oblio, con la raccomandazione del portiere infernale di macbettiana memoria: «Ricordatevi di me». «Non è vero».
Sfida tutto, tutti, senza sprezzo e disprezzo, Latini: la nebbia fumosa solcata con sequenze gestuali da ideogramma; il limite dell’identità, sdoppiato in un dialogo tra due sé su altrettante sedie a centro scena, echeggiando il Carmelo Bene “turco” che fu; il cuore e lo sguardo del pubblico con uno spettacolo ecceduto nel mettere in crisi il proprio stesso statuto. Sottrae certezze, offre dismisura, nella muta rarefazione d’un dopo senza tempo. Sfida, e non recrimina: avrebbe modi e potenza per abdicare alla comunicazione, rifiutarndo un pubblico drogato di consolazione sotto vuoto spinto. Non lo fa: nella solitudine frustrata e smarrita di questo Pinocchio scalcagnato, prevale la disperata urgenza del teatro come occasione, ascolto, pur nella convinzione che siano sempre meno coloro in grado di sentire, prima ancora di capire, l’urlo atroce consegnato come un messaggio in bottiglia.
Non applausi, lacrime.
«Non è vero».