Tutti gli spettacoli meriterebbero un manifesto – un’affiche, per fare i raffinati – che, pur rimanendo fisso, incollato a un pannello in doppia o quadrupla copia, riesca ad eccitare la fantasia del passante affaccendato, a incuriosire l’automobilista inchiodato al semaforo, a sorprendere il passeggero distratto sul filobus.
Non tutti ne hanno uno, ahimè, e gli spettacoli che hanno la fortuna d’essere reclamizzati per via di affissioni pubblicitarie ne hanno forse più svantaggi che benefici.
Io, che sono Arlecchino, sono vagabondo per natura. E quando passeggio, ciondolando tra le vie che si svuotano all’imbrunire, mi fermo a guardare i manifesti dei teatri. E giudico.
Con i primi caldi, si sa, il teatro vero è nelle strade, lungo le passerelle scaldate dal sole dove si scoprono le tendenze del pret-à-porter (il rosa pare si porti molto, il giallo pure; la tintarella integrale è demodé): vedi gli innamorati scambiarsi baci scespiriani, vedi la sciantosa e il soldato fanfarone, i generici col gelato da passeggio e i caratteristi col ventaglio rococò, i (soliti) bimbi lagnosi e i vecchi impiccioni.
Al teatro di professione non resta che uscire all’aperto: nelle piazze – cavee naturali – nei parchi, nelle corti di palazzi nobiliari ora sotto gestione comunale (non erano meglio il Marchese di Vattelapesca e il Conte Diosammaidove? almeno loro non piangevano miseria).
L’attacchino non si affligge: sagre, mercatini e festivàl danno comunque un senso al suo giro di affissioni.
Ma ad Arlecchino chi ci pensa?
Mi consolo con questi pochi ultimi strascichi di stagione regolare.
A cavallo tra aprile e maggio, Morte di un commesso viaggiatore il drammone americano messo in scena nei teatri di tutta Italia dalla Compagnia dell’Elfo ha fatto tappa anche a Pistoia, convincendo la maggior parte dei presenti (ne ha scritto il dottor Titomanlio, persona serissima). Convincente anche l’affiche, per la sua dominante nera e per l’impaginazione che conduce lo sguardo su quella cabina doccia troppo stretta per due uomini (è una scena dello spettacolo, e uno dei suoi tanti possibili sottotesti), sul testo scalettato come un pensiero distorto e sul protagonista (Elio De Capitani) seduto nella penombra dei suoi guai.
All’inizio del mese si è vista invece a Buti una cosa nuova. Più che nuova, d’importazione, visto che il suo autore e regista, Gabriele Paoli, transfugo a Londra, ha inscenato L’inferno dentro prima in inglese che in italiano. Abbiamo appreso che, nel preparare questa seconda versione, una sostanziale porzione di lavoro si è svolta via Skype, ovvero telematicamente; «idea che fa molto ggiovane», ha scritto il dottor Vazzaz nel suo insostituibile resumée. A me, che sono Arlecchino, pare solo un brutto e non necessario scherzo; e i mezzi non giustificano mai i fini (si legga per conferma il pezzo del dottor Balestri).
Il manifesto tuttavia si lascia guardare: deprecabile la scelta del carattere e dei colori, tanto somiglianti a quelli d’una sigla per telenovelas; e quei tre 6, di rosso affinché si leggano in sequenza, a formare il numero cosiddetto della bestia, riescono assai poco bestiali. Ma la fotografia, ritratto strettissimo di donna dal volto seminascosto, incuriosisce e allarma.
Famiglia di font tradizionale, alterata graficamente dimodoché tutte le vocali abbiano forma quadrata: così la locandina di Il sogno di un uomo ridicolo. Nero su bianco, in corpo sufficientemente grande da occupare il foglio intero. L’unico tono di grigio è per i nomi – anzi i cognomi – notevoli: Lavia (il regista e direttore artistico del Teatro della Pergola, locomotiva del neonato Teatro Nazionale della Toscana) e Dostoevskij (quest’ultimo scritto come si deve, per fortuna). Niente di originale, nondimeno funziona.