«Ce n’est qu’un début…»: è la reiterazione parossistica della prima parte dello slogan che segnò il maggio francese ad aprire Free Spirit, terzo appuntamento nella prima giornata dei Teatri del Sacro.
«Ce n’est qu’un début», ritmo insistito, marziale.
«Ce n’est qu’un début», quasi un coro.
In pochi, ci pare, riconoscono però la parola d’ordine che fu di Daniel Cohn-Bendit e, per restare alla scena, del Living Theatre, presente a Parigi, tra 1967 e ’70, con Paradise Now. «Ce n’est qu’un début»
Il bianco tenue d’un proiettore senza diapositive inquadra l’ampio spazio ricavato all’interno di uno dei chiostri del Real Collegio: s’intravedono sagome, se ne avverte la presenza, al pari del baluginio distante di lampi a prometter pioggia. Alcune scritte, proiettate a mano da presenze che risalgono la platea, si stagliano mobili e confuse sulla base del palco: s’intuisce un discorso sul concetto di libertà, la sua definizione problematica, slittante attraverso forme e significazioni.
Cinque performer abitano una scena sgombra di oggetti: la riempiono di movimenti, solcature d’aria, per un’articolata coreografia a quadri. Poco a poco, la luce si fa intensa: il rosso e il blu di magliette e pantaloni (costumi casual, improntati a una certa libertà di movimento) acquisiscono definizione. Si procede a stazioni: ora il gruppo compatto si fa coro greco, rispondendo vocalmente all’assolo d’un danzatore; ora, a ruoli invertiti, s’innescano complesse azioni di gruppo, sino alla potente sequenza coreutica sulla base d’una partitura registrata di impressionante vocalità rumoristica. Abbondano i sintagmi efficaci, nell’emersione progressiva del dubbio su cosa significhi essere liberi. Liberi da cosa? Liberi per cosa? I gesti si ripetono, in declinazioni meccaniche dell’atto, si spezzano, così come le parole, lacerti tronchi, frammentati, in un gioco di destrutturazione del messaggio, tra verbalità, oralità e corpo. Siamo davvero liberi, pensiamo, se anche e soprattutto il linguaggio è dispositivo fragile, tarlato e rischia di non veicolare niente? O, meglio: c’è davvero qualcosa da veicolare?
Soffre di eccessiva dilatazione, questo Free Spirit, comunque apprezzabile per forza ed energia: riecheggiano, ci pare, soluzioni intraviste nei lavori di Roberto Castello − pensiamo a In girum imus nocte (et consumimur igni) visto qui vicino mesi fa −, mentre, con i minuti, si rasenta la reiterazione inerte, minando sensibilmente l’efficacia dei momenti più incisivi. Libertà e sacro: concetti diversi eppure legati, magari in modo sfumato, sfuggente, quasi a riequilibrare un didascalismo sin troppo pronunciato nei pur apprezzabili primi due allestimenti della rassegna.
Si chiude tra i lampi: quelli delle luci stroboscopiche (troppo deboli per l’en plein air) e quelli reali, d’un temporale limitatosi a mero brontolio; in sottofondo, non richieste, echeggiano le note di un concerto jazz dato in una piazza poco distante, in una commovente prova di programmazione culturale cittadina.
Restiamo in attesa d’un «continuons le combat» che, come la burrasca, non giunge: sarebbe stato il completamento dello slogan iniziale («Ce n’est qu’un début… continuons le combat», «Non è che un inizio… continuiamo la lotta»), ma il cerchio non si chiude e, forse anche in questo dettaglio, si racchiude un ulteriore germe di riflessione sulla libertà.