È passata qualche settimana dall’uscita della revisione dei regolamenti relativi al Fondo Unico per lo Spettacolo, con una radicale modificazione della geografia istituzionale del teatro italiano. Tra i primi a parlarne, Massimiliano Civica in una bella intervista alla testata Doppiozero, giustamente ripresa da molti poiché in grado di fornire un’interessante lettura dell’accaduto [nonostante non sia stata rilasciata a noi!, ndr]. Abbiamo quindi deciso di rilanciare il discorso (l’attualità è così fatta: qualche rilancio, altrettante condivisioni e poi, via, si tira avanti), ponendo alcune domande sul tema ad alcuni artisti, operatori e addetti ai lavori, per una serie di interviste in parallelo.
Questa volta, il nostro interlocutore (qui la lista progressiva con tutte le interviste) è Donatella Diamanti, drammaturga, scrittrice, sceneggiatrice e docente di scrittura per il teatro. Dal 2012 è Direttrice artistica della Città del Teatro Fondazione Sipario Toscana, una delle più importanti realtà teatrali della nostra regione.
Da chi è ispirata la riforma? È il risultato dello scollamento tra la realtà della politica e quella del teatro o, piuttosto, ha un preciso scopo?
Una riforma dovrebbe essere ispirata dalla conoscenza e dall’ascolto. L’intenzione era quella, suppongo, di riorganizzare un sistema che lo chiede a gran voce da tempo e ridistribuire equamente le fette di una torta che la crisi ha reso sempre più piccola. Mi pare, tuttavia, che a pochi mesi dalla sua applicazione, questa riforma vada scontentando e spaventando i più. Per valutarne gli effetti occorrerà tempo, è evidente. Ma, intanto, il tempo passa e ancora non è chiaro su quali risorse potremo contare. In molti ci si muove in punta di piedi, come elefanti in una cristalleria. Noi della Città del teatro, divenuti Centro di Produzione a dispetto dei numeri – veri – che ci avevano indotto a fare domanda per essere considerati TRIC (come, del resto, molti ex stabili di innovazione per l’infanzia e la gioventù), ci troviamo nella condizione paradossale di poter ridurre le attività, volendo. Ma non lo vogliamo. La Città del Teatro è luogo particolare, fatto di spazi che stanno lì apposta per vivere ed essere vissuti. Ci auguriamo di poter andare avanti così.
Sta a noi far sì che si smetta di dire “tre teatri nel raggio di 10 km sono troppi”. Tre teatri debbono essere considerati una ricchezza, non un problema
In Toscana quali realtà saranno favorite dal nuovo assetto?
La mappa è già disegnata e, a oggi, la domanda è superflua. Vorrei tuttavia poter rispondere che saranno favorite quelle realtà che sapranno rispondere al cambiamento senza adattarvisi passivamente. La Città del Teatro confina con il Teatro Verdi (Pisa) e il Teatro Era (Pontedera). Sta a noi far sì che si smetta di dire “tre teatri nel raggio di 10 km sono troppi”. Tre teatri debbono essere considerati una ricchezza, non un problema.
Come cambierà il tuo modo di programmare o produrre? Credi anche tu di dover fare più spettacolo e meno teatro per avere i requisiti di accesso ai finanziamenti?
Non cambierà. In parte ho già risposto. Eravamo già pronti per stare nei parametri della legge e per rispondere ai requisiti. Quando, tre anni fa, ho assunto la direzione artistica qui a Cascina, ho spalancato le porte e praticato l’accoglienza. Sono fermamente convinta che dirigere un teatro non significhi possederlo. Non è demagogia: io ci credo davvero. Credo nella necessità di un vero ricambio generazionale, per questo non sono io a scrivere i testi delle nostre nuove produzioni; per questo, con il nucleo artistico, mi sono inventata da subito un progetto fra formazione e produzione al termine del quale giovani drammaturghi, scenografi, registi partecipano alle nostre produzioni o ne curano interamente la traduzione pratica; per questo sostengo, come posso, giovani compagnie.
Se guardo il Pinocchio degli Zaches, sono fiera di aver contribuito alla produzione e mi dispiace di non aver potuto fare di più. Idem per il Cappuccetto Rosso di Sandro Mabellini [visto e recensito in occasione del Lucca Teatro Festival, n.d.r.], o per La parte migliore di me di Orto degli Ananassi, o per In ogni caso nessun rimorso dei Borgobonò, che faranno presto parlare di sé, ne sono certa. Non abbiamo avuto bisogno, insomma, di comprare under 35 “un tanto al chilo”: li avevamo già sottomano. Riguardo alla seconda parte della domanda, provo un senso di irritazione. Che significa dover fare più spettacolo e meno teatro? Quando riempio la sala da 730 posti è spettacolo, se invece in quella stessa sala sono solo in 20 è teatro? Forse esagero, ma c’è dietro questa domanda un’idea di teatro che non mi appartiene. Ogni spettacolo ha una sua storia, uno spettatore modello a cui guarda e intende parlare, ma se ci si occupasse di più di diffondere una cultura teatrale, se si smantellasse la convinzione che il teatro è per pochi e si formasse al gusto e alla bellezza, avremmo spettatori onnivori e felici di scegliere.
Con la riforma, i direttore artistici di Teatri Nazionali o dei TRIC, qualora fossero registi, non potranno più produrre spettacoli presso teatri di cui hanno la guida: è giusto? Non è possibile che la norma venga aggirata, magari, collocando dei prestanome o innescando politiche di scambio.
Non so se la norma potrà essere aggirata; si dice “fatta la legge trovato l’inganno”, e forse qualcuno il modo per aggirarla lo troverà. Ma il punto non è questo. Il punto è che è triste che si sia dovuto legiferare su qualcosa che avrebbe dovuto trovare un limite nel buon senso e nell’etica.
Massimiliano Civica afferma: «Davanti poi a spettacoli oggettivamente brutti ho detto che erano interessanti, perché i registi di quegli spettacoli erano anche i direttori di teatri in cui io volevo andare con le mie produzioni. Ho continuamente rinunciato al mio giudizio e alle convinzioni d’artista, perché bisogna “stare al mondo”». A te è mai capitato quest’impasse?
Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Civica ha scritto cose bellissime e condivisibili. Per questo mi sono dotata di un’organizzatrice parecchio in gamba: fin qua, se c’è stato da mentire, ho lasciato fare a lei.
Ogni spettacolo ha una sua storia, uno spettatore modello a cui guarda e intende parlare, ma se ci si occupasse di più di diffondere una cultura teatrale, se si smantellasse la convinzione che il teatro è per pochi e si formasse al gusto e alla bellezza, avremmo spettatori onnivori e felici di scegliere.
Si può immaginare un’attività teatrale, artistica, che possa esistere al di fuori dei finanziamenti pubblici, ed essere allo stesso tempo alternativa alla cultura dominante, testimoniando una possibile diversità dalla maggioranza?
La cultura deve essere finanziata. Quanto alla cultura dominante e alla diversità dalla maggioranza, vale quel che ho detto sopra: l’educazione al gusto e alla bellezza dovrebbero essere l’obiettivo. Non si può prendere sempre le distanze da quel che piace ai più e starsene con le mani in mano. E comunque ci sono produzioni oggettivamente brutte. E c’è chi le fa che si racconta che non sono brutte, solo non sono comprese.
L’educazione al gusto e alla bellezza dovrebbero essere l’obiettivo. Non si può prendere sempre le distanze da quel che piace ai più e starsene con le mani in mano.
Come dovrebbe essere il paradigma di una buona riforma, per te?
Una riforma che tiene conto delle differenze. Una riforma collegata alla realtà. Una riforma che non si dimentica, ad esempio, che esiste ed è fecondo un teatro che ha fatto dei bambini e delle bambine e dei giovani il proprio destinatario e che, facendo questo, si rimbocca le maniche, guarda il mondo che ha intorno e si attrezza, come può, per migliorarlo.